il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2022
Ritratto di Niccolò Machiavelli
Nei tempi bui, i classici del pensiero politico hanno sempre offerto un aiuto prezioso. Fra tutti, Niccolò Machiavelli è stato particolarmente generoso di lezioni di saggezza.
Per apprezzare il suo insegnamento è indispensabile poter leggere i suoi scritti in edizioni filologicamente impeccabili e corredate da un ottimo apparato critico. Nel caso di Machiavelli, abbiamo ora la splendida edizione diretta e coordinata da Francesco Bausi per Salerno Editore con la collaborazione di Alessio Decaria, Diletta Gamberini, Andrea Guidi, Alessandro Montevecchi, Marcello Simonetta, Carlo Varotti, Luca Boschetto e Stella Larosa.
Frutto del loro lavoro, durato 8 anni, è un’opera in tre grossi tomi. Ogni lettera è preceduta da un ‘cappello’ che offre informazioni preziose su persone e circostanze e chiarisce i problemi di interpretazione del manoscritto originale (o delle copie) tenendo sempre presente i contributi della ricerca filologica e critica. Il testo è corredato da note che spiegano il significato dei termini e dei modi di dire che sarebbero altrimenti del tutto incomprensibili anche per i lettori più colti. Nonostante la sua mole, la nuova edizione è di lettura più agevole, e più piacevole, di tutte le le altre.
E soprattutto ci permette di capire meglio molti aspetti controversi della vita di Machiavelli, quale a esempio la questione della sua povertà. Sostiene Bausi che anche dopo il 1512, quando perse il suo posto di segretario, e quindi non poteva più contare sul salario che la Repubblica di Firenze gli corrispondeva, Machiavelli aveva cospicue risorse. Possedeva notevoli proprietà ereditate dal padre Bernardo: campi, boschi, case e persino un’osteria, quella che cita nella lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, la più celebre di tutto l’epistolario, dove andava a giocare a cricca con “l’oste, un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai” che erano poi suoi dipendenti o affittuari. Anche i due testamenti che Machiavelli scrisse nel 1511 e nel 1522, pubblicati ora nel terzo tomo delle Lettere, non lasciano ombra di dubbio sulle sostanze dell’ex segretario fiorentino.
Il dubbio resta, tuttavia, sulle sue capacità di amministrare le proprietà. Dalla stessa lettera apprendiamo che per arrotondare le magre entrate Niccolò aveva deciso di vendere la legna dei suoi boschi. Ma l’attività fu di breve durata perché da quel commercio, anziché guadagnare, perdeva (“Di modo che, veduto in chi era guadagno, ho detto agl’altri che io non ho piú legne”). Come aveva scritto a Vettori il 9 aprile di quel medesimo anno, il commercio non era la sua arte (“la Fortuna ha fatto che, non sapendo ragionare né dell’arte della seta né dell’arte della lana, né de’ guadagni né delle perdite”; II, p. 923). E non era un risparmiatore (“sendo avvezzo a spendere e non potendo fare senza spendere”, II, p. 1171). Sicché, proprietà sì, ma soldi pochi.
La nuova edizione delle Lettere getta luce anche sulla cultura di Machiavelli, altra questione molto dibattuta dagli interpreti. Come il suo maestro Mario Martelli, Bausi sottolinea che Machiavelli non aveva una cultura paragonabile a quella dei grandi umanisti: “Chi si ostina a fare di Machiavelli un classicista e un filologo dotato di profonda familiarità con le lingue e le letterature antiche potrebbe essere còlto da qualche dubbio constatando come in tutto il suo carteggio le citazioni classiche si riducono a tre passi desunti dalle Metamorfosi ovidiane, ossia da un testo di studio scolastico” (I, p. XX). Merita riferire anche un altro esempio. Nella sua lettera del 20 agosto 1513, Francesco Vettori, a sostegno delle sue convinzioni sulla effettiva capacità degli Svizzeri di espandere il loro dominio, cita la Politica di Aristotele. La citazione è sbagliata. Un umanista ferrato negli studi classici avrebbe facilmente individuato l’errore. Machiavelli risponde invece, il 26 agosto, di non sapere “quello si dica Aristotile”. Ma anche se non conosceva tutto quello che avevano scritto i classici, sapeva trarre dagli antichi, con la sua intelligenza, la sua passione e la sua esperienza diretta della vita politica, pagine di saggezza che nessun umanista ha mai scritto.
Erano trascorsi pochi decenni dalla sua morte, nel 1527, quando cominciò a diffondersi nell’opinione colta la persuasione che Machiavelli fosse stato non solo acerrimo fustigatore della corruzione di papi, preti e frati ma pure eretico, ateo e miscredente. Anche su questo tema le Lettere offrono nuovi e importanti dettagli di notevole rilievo. Vettori chiudeva più volte le sue epistole con “Cristo vi guardi”; Machiavelli, le sue, mai. Ma nella minuta della lettera del 29 aprile 1529 ha apposto in testa la formula “Yhesus Maria”. Nell’autografo dell’epistola che effettivamente ha inviato a Vettori la formula è scomparsa. C’è di più. Le formule “Cristo ti guardi” e “Che Iddio ti conduca” appaiono invece in calce alle lettere che Niccolò ha scritto al nipote Giovanni Vernacci (figlio di sua sorella Primavera, o Primerana, morta nel 1500). “Cristo vi guardi” chiude la lettera a Ludovico Alamanni del 17 dicembre 1517 e quella al cognato Francesco del Nero del 31 agosto 1523. Giusta la conclusione di Bausi: le testimonianze fornite dal carteggio “non autorizzano a escludere recisamente il cristianesimo di Machiavelli” (I, p. XXVIII). Io andrei oltre: non voleva rivelarlo, ma in Dio credeva, ed era il Dio di Mosè e dei redentori di stati, il Dio che è ultimo rifugio ai derelitti.
Dalle lettere emerge infine che Machiavelli, “a partire dal 1513”, appena uscito dal carcere dove i Medici lo avevano gettato con l’accusa di aver cospirato contro di loro, “ha manifestato il suo fermo proposito di entrare al servizio dei Medici”. Cade dunque il mito di Machiavelli repubblicano integerrimo e irriducibile e s’impone la nuova immagine di Machiavelli tutto mediceo, rileva Bausi. Le prove testuali che Machiavelli ha cercato di porsi al servizio dei Medici sono schiaccianti. Ma altro è essere al servizio dei Medici per indurli a fare quello che egli riteneva giusto e necessario per Firenze e per l’Italia; altro è servire i Medici per sostenere esclusivamente i loro interessi e il loro potere. Dalle Lettere emerge che Machiavelli voleva convincere i Medici a impegnarsi sul serio per la libertà dell’Italia. “‘Liberate l’Italia da questa lunga afflizione, estirpate queste belve feroci che niente hanno di umano, se non il volto e la voce” ha scritto, in latino, a Guicciardini, il 17 maggio 1526, per esortarlo a persuadere il papa Medici a muovere senza indugi guerra contro gli eserciti imperiali che avevano passato le Alpi. Sono parole che evocano la celebre ‘Esortazione a pigliar la difesa di Italia e liberarla dalle mani de’ barbari’ (in latino nel testo) che chiude il Principe. Questo era Machiavelli: non un eroe marmoreo della virtù repubblicana, ma neppure un servo dei Medici. Un uomo che amava la sua patria più dell’anima, come scrive a Vettori il 16 aprile 1527. Proprio per questo era repubblicano.