il Giornale, 5 ottobre 2022
L’Italia chiede al Brasile l’estradizione di Robinho
«Sto ridendo perché non mi importa niente. La ragazza era completamente ubriaca, non sa niente». Chissà se adesso ride ancora, Robson de Souza Santos in arte Robinho, il calciatore brasiliano che dal 2010 al 2014 vestì la maglia del Milan. Fino a ieri l’attaccante carioca era convinto di essere al sicuro, nonostante la condanna per stupro che gli era stata inflitta sia in primo che in secondo grado a Milano, dopo le accuse lanciate contro di lui e cinque suoi amici dalla vittima di una serata violenta nel 2013. Per sottrarsi alla giustizia italiana, Rubinho era riparato in patria. L’eco dell’inchiesta milanese era arrivata anche là, quando i giornali locali avevano riportato le sconcertanti intercettazioni finite agli atti dell’indagine: e il Santos aveva licenziato in tronco il giocatore. Ora può accadergli di peggio: il nostro ministero della Giustizia, dando corso alla richiesta della Procura milanese, ha trasmesso al governo di Brasilia formale richiesta di estradizione del latitante. In teoria, Robinho è coperto dalla Costituzione brasiliana, che pone grossi limiti alla estradizione dei propri cittadini. Ma la gravità delle accuse e l’esecrazione che in Brasile ha suscitato la vicenda potrebbero spingere il governo Bolsonaro a dare corsa alla estradizione chiesta dall’Italia.
Per sottrarsi all’indagine milanese, il calciatore aveva rinunciato a ben due anni di ingaggio nel Milan, tornando in patria alla fine del campionato 2013/2014 nonostante il contratto che lo legava al club rossonero. A suo carico, oltre alla denuncia della vittima, c’era il mezzo precedente che si portava appresso da quando giocava a Manchester, dove era stato colpito da una accusa analoga, poi archiviata. Nell’indagine milanese, condotta dal sostituto procuratore Stefano Ammendola, erano invece emerse prove considerate inoppugnabili dai giudici: comprese le intercettazioni tra Robinho e il suo amico Jairo Chagas, musicista, anche lui presente alla serata. Serata iniziata al Sio Cafè, uno dei bar classici della movida milanese, dove i cinque amici adocchiano una ragazza albanese, che si trova lì per festeggiare il compleanno. Alla sera è presente anche la moglie del calciatore, che però viene caricata su un taxi e rispedita a casa per lasciare al gruppo mano libera. La ragazza viene portata nel retro del locale dove, secondo l’accusa, viene sottoposta a «plurimi e ripetuti rapporti sessuali». Nel chiedere la severa condanna di Robinho e dei suoi complici, il pm Ammendola aveva parlato di uno «stupro aggravato della minorata difesa fisica e psichica della donna».
Tornato in patria, Robinho aveva sempre sostenuto che il rapporto di gruppo fosse avvenuto con il consenso della ragazza. Ma due anni fa la pubblicazione delle intercettazioni aveva affossato la linea difensiva. «Ci hai fatto sesso anche tu?», dice Chagas. «No, ci ho provato», risponde Robinho. «Ti ho visto metterglielo in b...», replica il musicista. «Questo non significa fare sesso», dice il giocatore: una confessione, visto che ovviamente si tratta di uno stupro a tutti gli effetti.
Insieme a Robinho il ministero chiede che venga consegnato il suo amico Ricardo Silva, condannato anche lui a nove anni. Nella sentenza della Cassazione si scrive che il rossonero e suoi amici hanno manifestato «particolare disprezzo» nei confronti «della vittima che è stata brutalmente umiliata».