http://storiaefuturo.eu/gaetano-ambrico-linchiesta-parlamentare-miseria/, 4 ottobre 2022
Biografia di Gaetano Ambrico
Gaetano Ambrico nacque a Grassano, in Basilicata, il 12 ottobre 1917. Dopo la maturità classica e l’abilitazione magistrale si laureò in Lettere e Filosofia con il massimo dei voti presso l’Università degli studi di Roma e con una tesi sul Diritto naturale nel pensiero di P. Carabellese (Strazza 2010, 14-18).
Durante il periodo universitario frequentò anche il corso di pedagogia di Giuseppe Lombardo Radice ed altri insegnamenti presso il Pontificio ateneo lateranense, nonché la Biblioteca vaticana dove conobbe Alcide De Gasperi. Partecipò attivamente alla Fuci insieme a Giulio Andreotti e Aldo Moro. In questa fase avvenne l’incontro con Igino Giordano, cui rimase legato da una profonda amicizia, che dirigeva la rivista cattolica “Fides”.
Tra il 1938 e il 1943 insegnò nel liceo ginnasio parificato del “Collegio nazareno” di Roma. Fino al 1945, insieme ad altri insegnanti, organizzò una scuola per i ragazzi che avevano difficoltà a raggiungere le sedi di studio per le difficoltà belliche.
Rientrato in Basilicata, si impegnò nell’Azione cattolica e fondò le Acli, diventandone presidente provinciale e regionale nonché consigliere nazionale. Su invito dell’arcivescovo materano diresse la scuola media dell’istituto magistrale Sant’Anna di Matera, insegnandovi anche e portandola al riconoscimento legale.
Nel 1948 collaborò, come vice direttore, a “Democrazia Lucana”, organo regionale della Dc (Restivo 1993, 154-156). In quello stesso anno fu eletto deputato per la I legislatura repubblicana (8 maggio 1948-24 giugno 1953) nelle liste della democrazia cristiana in rappresentanza del collegio di Matera. Fece parte della VI commissione legislativa della Camera dei deputati “Istruzione e belle arti”. A livello politico aderì al gruppo di “Cronache Sociali” facente capo a Dossetti. Tale suo posizionamento “a sinistra” dovette metterlo in opposizione ad Emilio Colombo che in quel periodo in Basilicata tentava di estromettere la vecchia classe dirigente regionale dal controllo del partito. Tra i fondatori della Coldiretti di Basilicata, fu presidente regionale e consigliere nazionale.
Nell’autunno del 1948, dopo la scissione sindacale, contribuì alla nascita della Libera Cigl in provincia di Matera, mettendo a disposizione del nuovo sindacato di Giulio Pastore tutte le strutture organizzative delle Acli. Ambrico divenne, in tal senso, il “referente principale” di Pastore per l’avvio della Lcgil nel materano che, già nel primo periodo, raggiunse circa un migliaio di tesserati (Ambruso 1993, 41).
Particolarmente sensibile alle tematiche sociali, fu l’unico deputato democristiano a non accettare la versione ufficiale, fornita alla Camera dal sottosegretario agli Interni Marazza, al posto del ministro Scelba assente, sulla morte di Giuseppe Novello seguita, nel dicembre del 1949 a Montescaglioso, alle occupazioni di terre e agli arresti dei carabinieri, dichiarando espressamente di non condividere certi metodi delle forze dell’ordine. Così si espresse nell’aula di Montecitorio:
Mi tocca l’ingrato compito di dichiararmi insoddisfatto della sua risposta. Non della risposta, né dell’esposizione che ella ha fatto degli avvenimenti di Montescaglioso, ma di me stesso e di tutti noi che qui siamo stati chiamati all’arduo compito di attuare con la legge i principi della Costituzione.
Per questa ed altre posizioni (fu contrario all’ingresso dell’Italia nella Nato) venne isolato all’interno della Dc e fatto oggetto di richiami politici formali. Pare che proprio in occasione dell’opposizione all’ingresso nell’Alleanza atlantica De Gasperi avesse esclamato: “Chi è questo lombrico?”.
In realtà, da ciò che in seguito riferì lo stesso Ambrico, la frase fu un’invenzione giornalistica, mentre il leader democristiano si limitò a rivolgersi ai dubbiosi esclamando: “Rispondo io della vostra coscienza davanti a Dio”. Il voto contrario del deputato lucano era motivato dal fatto che l’inserimento “in una politica che organizzava la violenza in patti militari” avrebbe precluso all’Italia ogni possibilità di mediazione efficace sul piano internazionale (Pilieri 1984).
Di qui tutta una serie di iniziative messe in campo da Ambrico, Igino Giordani e dagli altri parlamentari della sinistra Dc anche “per evitare che la pace divenisse appannaggio e prerogativa linguistica” delle sole forze comuniste e socialiste:
Pace per noi aveva un significato di piattaforma per una politica estera ispirata alle idealità cristiane già espresse in termini chiari dai documenti e dagli atti pontifici, con la certezza di un preciso ruolo della Chiesa nella mobilitazione di forze edificatrici d’una comunità internazionale in pace. In pratica, puntavamo su l’obiettivo di provocare nell’opinione pubblica un movimento per un disarmo totale, graduale e controllato, che trovava esclusivo riscontro nella posizione di Igino Giordani e di pochi altri come me (Pilieri 1984).
Componente della commissione parlamentare sulla miseria istituita nel 1952 e presieduta dal socialdemocratico Ezio Vigorelli, indagò le problematiche del mondo contadino delle aree interne del materano (Camera dei deputati, 1954; Fiocco 2004).
Così ricordò anni dopo, in una intervista, quella sua partecipazione:
L’inchiesta è nata dalla conoscenza della situazione angosciosa dell’immediato dopoguerra, che allora saltava agli occhi di tutti: la miseria diffusa, la disoccupazione incombente. Dopo le elezioni del 18 aprile, sotto l’impulso della vittoria, in parlamento ci fu la presentazione di numerose proposte di legge, spesso per iniziativa di singoli deputati, di tipo clientelare e corporativo, espressione di una impostazione politica volta prevalentemente alla conservazione del potere raggiunto. (…) Giordano ed io – e tutto il gruppo di “Cronache sociali” – consideravamo la situazione in maniera diversa c’erano dei problemi gravi ai quali bisognava dare una risposta; c’era da affrontare le riforme per le quali ci eravamo impegnati: la riforma agraria, ad esempio, che veniva sempre rimandata. In realtà eravamo davanti ad un bivio; da una parte, la scelta di partecipare all’attività di governo – Fanfani in particolare si orientò in questo senso –; dall’altra, tornare ad essere minoranza, impegnandoci in una attività legislativa volta a dare ordine alle leggi, impedendo che si infossassero in problemi troppo particolaristici e segnalando al parlamento le vere priorità. Creammo così, il 12 ottobre 1951, la prima commissione che promosse l’inchiesta di Grassano e sulle zone depresse (Baggio 2005)
Sulle modalità innovative dell’inchiesta, considerata la prima ricerca sociologica a carattere comunitario svolta in Italia, seguiamo il discorso di Ambrico stesso:
Si discusse a lungo sul modo di condurre la ricerca. Si verificò un divario di punti di vista, fra chi riteneva che bastasse fare una rilevazione statistica “verticale” sull’entità della povertà in Italia, servendosi degli Istituti esistenti; e chi era convinto, come me, che si dovesse condurre una ricerca “orizzontale”, comunità per comunità; e proposi di condurla su tre grandi città: Napoli, Roma e Milano e nelle zone più depresse del paese. Questa richiesta di indagine globale non fu accolta; ci veniva obiettato che in Italia non avevano esperienze di questo tipo. La commissione decise di condurre l’inchiesta statistica tradizionale; ma ci fu data l’opportunità di fare un’esperienza, per creare un primo momento di ricerca metodologica, su una piccola comunità, significativa in quanto rappresentativa della povertà persistente; proposi Grassano, conosciuta ai più attraverso il libro di Levi Cristo si è fermato ad Eboli (…). Si costituirono diverse sezioni della commissione, per cui i deputati si divisero i vari impegni; un gruppo limitato di essi venne giù a Grassano; ma l’importante fu che a Grassano si è creato il gruppo di studio, che è rimasto per un anno e mezzo sul posto, chiedendo e ottenendo la collaborazione della gente; gli abitanti di Grassano non sono stati considerati come materiale di studio, ma come attivi collaboratori. Questa è stata una cosa veramente bella: l’esempio di partecipazione della gente, che si è resa conto che si trattava di affrontare il problema della povertà, di evitare che molti emigrassero per inseguire il lavoro. L’inchiesta riportava i deputati alla loro fonte, dalla quale avevano ricevuto la loro autorità. Lavorammo fino a parte del 1953 (Baggio 2005; Ambrico 1952).
Nonostante la buona volontà di Ambrico e gli altri, in realtà l’inchiesta non condusse a sviluppi legislativi di rilievo, ponendo comunque all’attenzione nazionale i problemi di arretratezza e di miseria di una regione come la Basilicata, presa a modello di quella parte dell’Italia che non aveva conosciuto i processi di modernizzazione.
Ambrico stesso ne dovette prendere atto:
Purtroppo non c’era allora, in ambito parlamentare, la sensibilità – e non ci fu neanche dopo – per prendere seriamente in considerazione le indicazioni che emergevano dall’inchiesta; il parlamento vi gettò uno sguardo distratto; i tecnocrati la considerarono un’azione di disturbo nella realizzazione – alla quale essi erano impegnati – della riforma agraria; che fu in realtà, a mio avviso, una mancata riforma, anche perché non teneva conto dell’esigenza di considerare in maniera umanistica il mondo contadino (Baggio 2005).
Segnata, dunque, da forti limiti culturali e politici, la commissione concluse i suoi lavori con un’unica proposta operativa: “razionalizzare il sistema assistenziale attraverso il coordinamento dell’attività dei vari ministeri e degli enti pubblici da essi dipendenti operanti in campo assistenziale e previdenziale” (Braghin 1978, XII).
Ambrico si occupò dell’indagine sul materano e su Grassano, una comunità con circa 8.000 abitanti, studiata come modello esemplificativo del Mezzogiorno arretrato, tentando di individuarne le cause di diffusa povertà e i rimedi relativi. In quest’impegno espresse le sue idee di conciliazione tra istanze della classe operaia e valori cristiani, proponendo come modello da studiare il laburismo inglese che aveva realizzato un lungo cammino di emancipazione pur restando lontano dal materialismo storico (Sacco 2005).
La comunità di Grassano, definito “un paese povero con una popolazione di poveri”, venne studiata da Ambrico e dai suoi collaboratori in tutte le sue sfaccettature, dalle origini storiche alla struttura urbanistica, dall’evoluzione demografica alle implicazioni sociologiche, dai problemi economici e sociali a quelli sanitari.
Per il deputato lucano
il fattore dominante non era mai stata la miseria ma la povertà determinata da fattori esterni (tradizionalmente restituiti dalla tradizione meridionalistica classica: epidemie, grandine, carestie, dissesti idrogeologici) che avrebbero dovuto essere sostituiti da istituzioni giuridiche, economiche, politiche in grado di arginarla con relativa facilità.
La distinzione tra le categorie della miseria e della povertà serviva ad indicare che “il carattere produttivo di una comunità” non era influenzato solo dalle conoscenze tecniche degli abitanti di una comunità, “ma anche dalla mentalità, dalla cultura di appartenenza” (Libutti 2007, 201-202).
Lo sforzo di studio su Grassano fu enorme e si risolse in una precisa elencazione della cause della povertà, individuate in profonde trasformazioni economiche, sociali e demografiche, ma l’impostazione di Ambrico, tesa a dare una centralità generale a tale lavoro, suscitò presto perplessità e contestazioni all’interno della commissione.
Alcuni suoi membri, infatti, non condividevano l’idea del deputato lucano di fare della propria ricerca una sorta di “apripista” per l’intera inchiesta. Di qui mediazioni e compromessi che finirono per snaturale la portata rivoluzionaria del metodo di Ambrico.
Ma forse la sua analisi, pur dettagliata, come, del resto, quella di tutta la commissione, non riuscì ad individuare fino in fondo le cause strutturali della miseria, impedendo una chiara percezione e la conseguente proposta di una corretta strategia da mettere in campo:
Le proposte di intervento della Commissione riguardarono infatti non la tematica dello sviluppo economico (unica soluzione ad una situazione di povertà endemica), ma l’intervento riparatore dello Stato, cioè l’azione pubblica tesa a lenire gli effetti più vistosi della povertà (Braghin 1978, XXIII).
Di tali limiti certamente Ambrico si dovette subito rendere conto come dimostrano i suoi interventi successivi. Quando, infatti, il 19 febbraio 1953 alla Camera si discusse della proroga dei lavori della commissione egli ne mise in luce la necessità. L’inchiesta abbisognava, proprio per essere organica, di
un certo ciclo di tempo per poter stabilire quella relazione necessaria tra i fenomeni quantitativi e qualitativi dell’occupazione, della disoccupazione, dell’economia e dei rapporti sociali, per poter poi trovare i mezzi adeguati e sufficienti per combattere questo male che genericamente viene definito con il nome di miseria e che estensivamente si può allargare anche alla povertà.
L’indagine, condotta con estrema diligenza “e soprattutto con una certa sollecitudine”, era estremamente interessante – come egli specificò – in quanto mirava a gettare luce su quegli aspetti particolari dei problemi sociali del Mezzogiorno che interessavano le aree su cui agiva la riforma agraria la quale, fondata su criteri oggettivi, non aveva ancora avuto la possibilità “di tener sufficientemente conto dell’aspetto umano, del gioco umano di questi problemi nello sviluppo della futura economia del Mezzogiorno”. Per Ambrico il fenomeno della miseria non era soltanto “un fenomeno da localizzarsi e da risolversi con la semplice pratica assistenziale” ma un fenomeno che interessava “l’economia e la società in tutti i suoi rapporti” (Strazza 2010, 16).
Vicino al modo di pensare di un Carlo Levi o un Rocco Scotellaro, vi era in lui la forte preoccupazione per l’impatto di una “modernità vorace” sulla civiltà contadina lucana. Era, invece, necessario rifuggire sia l’immobilismo atavico che il cambiamento senza regole, auspicando un cammino verso uno sviluppo equilibrato del territorio, in consonanza con la visione di Adriano Olivetti e con il concetto di “comunità” (Sacco 2005).
Nella discussione sul disegno di legge governativo per il Risanamento dei “Sassi” di Matera (Atto Camera n. 2141) appoggiò la proposta dell’esecutivo di costruire borghi rurali nel materano.
Pur non condividendo le critiche del deputato comunista Michele Bianco, egli puntualizzò alcune criticità del disegno di legge, proponendone le soluzioni. In particolare, nella seduta del 6 febbraio 1952 della VII commissione “Lavori pubblici”, in sede legislativa, precisò che il problema del risanamento della città era, insieme “di carattere igienico e di carattere urbanistico”, esprimendo dubbi sull’aspetto conservativo dei “Sassi” i quali, secondo lui, sarebbero addirittura dovuti “sparire” come zone di abitazione. Era, inoltre, necessario coinvolgere anche il ministero dell’Agricoltura perché non era concepibile costruire una borgata rurale senza pensare all’insediamento rurale con la proprietà della terra (Camera dei deputati 1952).
Nonostante l’impegno profuso, Ambrico, sia per l’isolamento in cui era nel partito nazionale, sia per le “diversità di vedute” con Emilio Colombo, vero “padre-padrone” della Dc lucana, era destinato a non essere più presente nelle elezioni del 1953.
Del resto anche Amintore Fanfani, inizialmente facente parte di “Cronache sociali”, in ossequio ad un maggiore pragmatismo politico, aveva preso le distanze dal gruppo dossettiano, contribuendo all’isolamento di Igino Giordani ed Ambrico cui non rimase altro che contestare l’operazione politica degasperiana di rafforzamento e conservazione del potere.
Nel 1952, inoltre, Dossetti aveva lasciato l’impegno parlamentare e i deputati che a lui facevano capo avevano perduto una guida sicura. Ambrico, dalle pagine de “la via”, gli aveva tributato un affettuoso saluto, non lesinando critiche a chi non ne aveva compreso l’insegnamento:
Altre volte questo giornale si è occupato di Dossetti (…); in quegli articoli un insito peccato di chiarezza non ha consentito un adeguato e veritiero risalto della figura di Dossetti, che per noi rappresenta un esempio, da proporre ai giovani, di abnegazione, di sacrificio, di coerenza ed anche di umiltà politica. Ma se sul piano morale Dossetti rappresenta tutto questo, sul piano politico egli è il segno di contradizione, intorno al quale è sperabile si sani quella frattura apparentemente insanabile tra la vecchia generazione politica e la nuova. In fondo con Dossetti paga caro lo scotto tanta parte di quella gioventù protesa verso l’ideale politico in condizioni psicologiche di intransigente purezza, incapace di accettare sul terreno del compromesso il colloquio e la saldatura con la vecchia classe dirigente della democrazia prefascista. Altre forze giovanili questo compromesso accettarono subito e sono giunte alle massime responsabilità politiche col duplice risultato di frenare il necessario slancio giovanile della propria parte politica e di invecchiare anzitratto per adusarsi in anticipo ai maneggi della vecchia politica di corridoio. Tra queste forze giovanili si è inserita la generazione di coloro che furono troppo giovani per essere democratici ed abbastanza maturi per essere corporativisti autoritari; e furono corporativisti. Questa generazione più malleabile e pieghevole ha preso il bandolo dell’avvenire (Ambrico 1952b).
Lo stesso precedente appoggio, nel 1948, dell’arcivescovo materano mons. Cavalla, si infranse nel 1953 contro la contrarietà di parte del clero locale e, se dobbiamo credere ad Ambrico stesso, dovette giocare un ruolo la lettera che il vescovo di Tricarico, mons. Delle Nocche, gli inviò, sconfessandolo dal punta di vista politico. Questo il ricordo del protagonista:
In coscienza ritenevo di aver fatto tutto il mio dovere; furono, però, le procedure a mettermi nella condizione di non impormi all’opinione degli organi locali del partito. Decisi di non ripresentarmi anche perché una letterina di mons Raffaello Delle Nocche, Vescovo di Tricarico, mi diceva: «Lei non ha fatto il deputato come si doveva, non ha curato gli interessi degli elettori, a cominciare dai suoi familiari. Quindi, lei certamente non sarà eletto ed io, naturalmente, sono del parere che lei vada a fare il professore universitario, Vada, lasci stare la politica, perché non è fatta per lei (Pilieri 1984).
Dall’ottobre del 1958 al novembre del 1960 fu sindaco di Grassano, mentre dal 1960 al 1962 condusse, in qualità di esperto, studi e ricerche per il Cir nell’ambito della presidenza del Consiglio dei ministri e del ministero del Bilancio.
In questo periodo si occupò anche di importanti questioni internazionali, approfondendo risvolti economici e sociologici dello sviluppo dei Paesi mediterranei. Così, nel 1960, scrisse su “Incontri Mediterranei”un interessante saggio sul piano di sviluppo della Fao per il bacino mediterraneo (Ambrico 1960).
Sulla stessa rivista, tre anni dopo, affrontò il problema dell’emigrazione ai fini dell’integrazione politica internazionale, precisando che si trattava di un fenomeno “squisitamente sociale”, investendo “l’organizzazione sociale nei punti di più concreta strutturazione: i piccoli e grandi centri cittadini” (Ambrico 1963).
Nel 1963, “una rinnovata impostazione” della Dc, ad opera di Moro e Fanfani, stimolarono in lui un ritorno all’impegno politico attivo ma poi preferì restare fuori a lavorare “in profondità”. Del resto, come ebbe a dire anni dopo, “ormai il partito si era imbastardito, si erano create le correnti” (Baggio 2005).
Ed anche in Basilicata si erano aperti “i varchi al clientelismo” con gli “atteggiamenti manovrieri” ed il “trasformismo” della classe dirigente locale. Così, amaramente, in una intervista rilasciata nel 1984:
Una Dc sognata da giovane poteva corrispondere ad un desiderio e ad un’aspirazione personale, ad una tensione ideale. Purtroppo, quando ho avuto conoscenza diretta della situazione reale, delle persone, degli atteggiamenti, delle decisione prese e, soprattutto, dell’attitudine politica d’impostazione generale della propria testimonianza, mi sono accorto che la Dc doveva finire inevitabilmente con il diventare quella che è (Pilieri 1984).
Per circa vent’anni si dedicò al mondo della scuola, ricoprendo l’incarico di preside della scuola media di Grassano fino al 1987. Nel 1981 fu eletto presidente del Distretto scolastico di Matera. Insegnò anche Sociologia al centro studi della Cisl a Firenze.
Studioso di storia moderna e contemporanea, pubblicò: Struttura di una comunità contadina Meridionale a metà del sec. XVIII (Milano, Giuffré, 1964); Origini e sviluppo di una comunità contadina in Basilicata, in “Archivio Storico per la Calabria e la Basilicata”, anno XXXVI (1968); Contadini in Basilicata fra cultura e storia negli anni Cinquanta, in “Cultura, meridionalismo e lotte contadine in Basilicata nel secondo dopoguerra”, Atti del VI Convegno Nazionale di storiografia lucana, ottobre 1980 (Villa d’Agri, Ars Grafica, 1984).
In una intervista rilasciata a Rocco De Rosa dichiarò che il fallimento delle lotte contadine e della stessa riforma agraria dovesse essere imputato equamente tra Dc e Pci:
Quando sono arrivato in Parlamento mi sono portato dietro la povertà del piccolo centro in cui ero vissuto, Grassano, in provincia di Matera. Povertà vissuta. Volevo dare un contributo a risolvere il problema della miseria, che nel dopoguerra era acuta. Quando ho notato l’atteggiamento della DC, determinata a conservare il potere a tutti i costi, mi sono reso conto che l’unica strada era una forma di opposizione abbastanza netta. Concordavo con le posizioni di Dossetti, di Giordani e di altri esponenti. Volevamo una gestione positiva, affrontando i nodi veri del momento, sia della trasformazione agronomica del territorio, sia una migliore organizzazione della vita delle campagne. La DC, invece, una volta conseguito il potere, ha cercato sempre di conservarlo. E questo faceva comodo al partito comunista, intenzionato a fare l’opposizione a Sua Maestà. Le responsabilità vanno dunque equamente distribuite e sul piano concreto non si è trovata l’impostazione giusta (De Rosa 1999).
Su tali argomenti già nel 1981 aveva svolto una lucida analisi al IV Convegno nazionale di storiografia lucana quando aveva dato un giudizio negativo sugli effetti della riforma agraria. Essa, sotto l’incalzare degli eventi, aveva assunto, “nel presupposto dell’inconsistenza storica del mondo contadino”, veste e forma
di strumento indiscriminato di rottura nella distribuzione fondiaria e di meccanica e autoritaria trasposizione, sull’assunto incontrovertibile della piccola proprietà come struttura portante nella redistribuzione appoderata della terra, del fattore umano, prescelto a caso nell’ambito della disoccupazione bracciantile e non.
Si omise, cioè, di considerare che la piccola proprietà avrebbe avuto un senso soltanto se essa si fosse configurata come il risultato di una personale conquista nascente da una scelta libera in soggetti, il cui legame invece con la terra non fosse del tutto occasionale e sostanzialmente negativo, come evidentemente si era riscontrato nei soggetti prescelti (Ambrico 1984).
Morì a Grassano il 14 ottobre 2007. Con lui si spense una voce critica del cattolicesimo democratico italiano. In un suo scritto del 1985, dopo aver passato in rassegna idee e testimoni di un modo diverso di intendere il rapporto tra fede e politica, constatò “l’asfissia prodotta dalla totale assenza di un respiro ideale nella conduzione politica del Paese nel maggiore partito”. In definitiva, secondo Ambrico, mancò e manca in Italia, in campo cattolico, “una robusta anche se discutibile corrente di pensiero in grado di percepire con chiarezza il segno dei tempi” e di esercitare “un’influenza chiarificatrice determinante e diffusiva capace di orientare e di capire la premessa, il contenuto e le conseguenze della sintesi limpidamente acquisita dal Concilio Vaticano II”. Di qui “la pressoché totale dissoluzione dello Stato in presenza di una politica senz’anima” (Ambrico 1985).