Corriere della Sera, 4 ottobre 2022
Intervista a Gabriele Lavia
Pur di recitare è andato in scena a lume di candela. «In quel periodo ero direttore del Teatro Argentina – racconta Gabriele Lavia – ed era in programma il mio spettacolo La trappola di Pirandello. A causa di una agitazione sindacale, i tecnici delle luci dichiarano all’improvviso lo sciopero, senza il dovuto preavviso. La sala però era piena di pubblico e decido di fare la rappresentazione, per rispetto a chi aveva pagato il biglietto. Accusato di condotta antisindacale, ho recitato non proprio a lume di candela, ma quasi: solo con il riverbero delle luci di platea. Gli spettatori avranno pensato a uno stratagemma pirandelliano. Al pubblico piacciono gli imprevisti».
È una delle tante avventure che l’attore-regista vive da sempre fra teatro, cinema e televisione. Sessant’anni di carriera e 80 anni che sta per compiere, mentre tornerà in scena l’8 novembre al Teatro Quirino con Il berretto a sonagli.
Perché ufficialmente è nato l’11 ottobre, mentre la vera nascita è il giorno prima?
«L’errore fu fatto per non pagare una multa. Bisognava annunciare la nascita entro e non oltre un certo numero di giorni, ma all’epoca c’era la guerra e i miei genitori non erano riusciti ad andare in tempo all’anagrafe. Ma non festeggerò il compleanno».
Neanche un brindisi?
«Forse con mia moglie Federica e con i miei figli, ammesso che se lo ricordino».
Oltre 60 anni di teatro e lei non è figlio d’arte...
«Ho avuto la fortuna di avere dei “padri artistici” putativi: grandi maestri, a cominciare da Renzo Ricci. Ricordo quando una volta gli dissi: maestro, perché usa sempre il suggeritore? Lei la parte la sa a memoria! E lui rispose mettendomi una mano sulla spalla: Pallino... – così amava chiamarmi – hai ragione, la parte la so, ma non l’ho ancora dimenticata. Voleva dire che, per interpretare bene un personaggio, bisogna dimenticare la parte, dimenticare sé stesso in quanto attore».
Da dove nasce la sua passione per il palcoscenico?
«In verità, la prima volta che mi portarono a teatro, a Catania, la città dove vivevamo, mi annoiai mortalmente. Avrò avuto 3 o 4 anni e Gino Cervi interpretava il “Cyrano de Bergerac”. Non capivo niente, smaniavo e mia madre indispettita disse categorica: non ti ci porto più. La curiosità mi venne in seguito, quando una compagnia amatoriale veniva a casa nostra a fare le prove. Mi mettevo in un angolo: ero affascinato da ciò che facevano e, credo, di aver capito in quelle occasioni che fare teatro mi piaceva».
Quando decise di iscriversi all’Accademia d’arte drammatica, i suoi ne furono contenti?
«Lo annunciai una sera a cena: mio padre, seduto a capotavola, mi tirò un bicchiere enorme, lo schivai per miracolo e finì contro il muro. Aveva capito che non c’era niente da fare e che avrei rovinato la mia vita. Dopo la sua morte, ho scoperto che aveva custodito gelosamente in un armadio i ritagli di giornali in cui si parlava di me: mi fece tenerezza».
Perché al suo primo provino con Giorgio Strehler lei si spogliò nudo?
«Volevo convincerlo che ero giusto per il ruolo di Edgar nel Re Lear che stava preparando. Al termine della mia folle performance, si convinse a tal punto che sentenziò: Rita Renoir, la più grande spogliarellista del Crazy Horse, ti fa un baffo...».
Nato a Milano, vissuto a Catania, poi a Torino: a quale città è più legato?
«Catania, essendo figlio di siciliani. Ricordo la città bombardata e noi ragazzini che giocavamo tra le macerie, cercando le armi abbandonate. Una volta, trionfante, ne portai una a mia madre: mi corse appresso prendendomi a legnate».
Si sente un mattatore?
«No, il migliore spettacolo lo devo ancora fare. Sono felice quando non devo recitare e firmare la regia: entrambi i ruoli sono un’ammazzata».
Ha lavorato prima con la compagna Monica Guerritore, ora con la moglie Federica Di Martino: non è meglio fare scelte artistiche diverse?
«No, va benissimo. Forse le ho trattate un po’ peggio degli altri e loro, a volte, si sono ribellate dicendo: ma come, proprio tu mi tratti così?».
Quando dirige i suoi figli attori, Lorenzo e Lucia, è stato mai contestato?
«Il regista insegna ciò che può. Non si permettono di contestarmi».
Con Lucia, nel ruolo della Figliastra nei Sei personaggi in cerca d’autore, era imbarazzato nel ruolo del Padre che lei incontra in un bordello?
«Nessun imbarazzo. Quando sei un personaggio, non hai tempo di pensare a questioni familiari o psicologiche».
Ha detto che, quando sarà il fatidico momento, vuole essere seppellito con la camicia di forza che ha indossato nel Sogno di un uomo ridicolo.
«È uno spettacolo che ho amato molto, proprio per l’ostacolo delle braccia legate: un attore più ostacoli ha e meglio riesce a recitare. Vorrei rifarlo prima di morire... e anche dopo».