Corriere della Sera, 4 ottobre 2022
La guerra della vandea vista oggi
Le guerre sono tutte mostruose ma quelle civili sono peggiori di tutte le altre. Su questo concordano tutti gli storici che hanno collaborato a La storia della guerra dal XIX secolo ai giorni nostri, che, a cura di Bruno Cabanes, è in procinto di essere pubblicato da Bompiani. In particolare, concorda José Luis Ledesma, a cui è stato chiesto di occuparsi di cosa sia «Uccidere il proprio vicino». Ledesma si incarica di indagare sulla violenza a cui si abbandonano «persone che fino alla sera prima non avevano mai toccato un’arma». Probabilmente è anche questo (i più sono costretti a prendere la decisione di uccidere in un brevissimo lasso di tempo, da un giorno all’altro) che induce i combattenti a un di più di efferatezza. Chi va in battaglia contro un esercito straniero, è in genere più freddo, meno coinvolto, più professionale. Ciò che spiega almeno in parte perché, fin dai tempi di Tucidide, le guerre fratricide sono considerate le più terribili.
Le cronache dell’antichità, così come i testi medievali e moderni, scrive Ledesma, lasciano intendere che gli scontri armati tra gruppi di uomini che condividono uno stesso spazio, le stesse risorse e, in linea di massima, lo stesso potere politico sono stati più frequenti di quanto si pensi. E devastanti. Ma quelli degli ultimi due secoli che hanno come progenitore la guerra in Vandea (1793-1796) sono stati sempre più crudeli.
Come ha spiegato Victor Serge, a proposito di questo tipo di conflitto da lui stesso vissuto nella Russia postrivoluzionaria, le guerre civili hanno la caratteristica di non «riconoscere l’esistenza dei non belligeranti». Il nemico è identificato «nell’intera popolazione che appartiene all’altra parte». Antoine de Saint-Exupéry, cronista della guerra civile spagnola (1936-1939), racconta di una «guerra dai confini invisibili». Ed è «senza dubbio» per questa invisibilità dei confini, afferma l’autore de Il piccolo principe, che un tal genere di conflitto assume una forma così mostruosa: «Si fucila più di quanto si combatta».
Spiega David Armitage, in Guerre civili. Una storia attraverso le idee (Donzelli), che, essendo esse combattute in seno a una stessa collettività politica, ciò determina il carattere tutto particolare delle violenze. Non sono in gioco solo i territori, ma anche i valori e le identità che sono alla base della società e del sistema. Tale circostanza spesso conferisce alla lotta una dimensione radicale e può legittimare il ricorso a qualsiasi mezzo. La cancellazione dei confini tra combattenti e non combattenti, «tra i nemici e sé stessi», prosegue Ledesma, «comporta dinamiche di paura e di odio, di giustizia sommaria, anche pratiche di spoliazione materiale e fisica di ogni genere». Le rappresaglie vengono scatenate dall’alto, dalle autorità politiche e militari, «ma anche dal basso». In contesti nei quali la giustizia istituzionale si trova «sospesa», le emozioni come la vendetta «non sono solo accessi di furore personale» ma «rivestono anche una funzione strumentale per coloro che arrivano a canalizzarle».
Questo tipo di conflitto genera «la dinamica molto particolare delle rappresaglie incrociate», che si hanno durante le avanzate e le ritirate degli eserciti, quando un territorio passa di mano. Ma anche «in risposta alle vittorie militari, ai bombardamenti o ai massacri della fazione avversa»: ogni atto terroristico «contribuisce in pratica ad alimentare l’altro». Ed è cosa assai ben documentata – soprattutto per quel che riguarda i conflitti di questo genere successivi alla caduta del Muro di Berlino e alla dissoluzione dell’impero sovietico – nel saggio di Mary Kaldor Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale (Carocci). Si tratta di studi ad ogni evidenza scritti prima della guerra in Ucraina. Però contengono molte notazioni utili a comprendere meglio natura e conseguenze dello scontro militare successivo all’aggressione russa del 24 febbraio.
Le guerre civili, scrive Ledesma, affondano sempre le radici in un passato, più o meno lontano, nel quale i belligeranti vivevano ancora l’uno accanto all’altro. Che «si tratti di motivi di divergenza sostanziali o di semplici litigi quotidiani», la guerra di questo tipo «offre una cornice diversa, in cui l’odio può esprimersi liberamente». I «numerosi attori armati e la relativa impunità di cui godono rinfocolano la tentazione di regolare i conti in modo spiccio e di rispondere agli appelli alla “pulizia” del corpo sociale». Radicata nel passato, la violenza delle guerre civili «investe anche l’avvenire»: alla fine delle ostilità, se il Paese non viene definitivamente diviso in entità territoriali ben distinte, i sopravvissuti dovranno riprendere a vivere insieme; ed è inevitabile che le violenze della guerra e la repressione postbellica siano rafforzate anche dalla «concorrenza per le risorse materiali, il potere politico e lo status sociale della società futura».
Secondo lo studioso Stathis Kalyvas, la «produzione della violenza» nel corso delle guerre civili è un campo di macabra negoziazione che implica due categorie di attori: i gruppi provenienti dall’esterno e specializzati nell’attuazione della violenza armata e gli abitanti del luogo «che collaborano con loro mediante denunce e informazioni in base a motivazioni e interessi di origine intercomunitaria». Senza tali delazioni «non c’è violenza oppure essa è cieca». Sicché si può concludere che «in ogni guerra civile coesistono in realtà molte guerre civili».
In ogni caso Ledesma distingue tre categorie di guerre civili: quelle «convenzionali», quelle «irregolari» e quelle «simmetriche non convenzionali». Le prime, le «convenzionali» (Stati Uniti 1861-1865; Spagna 1936-1939), sono caratterizzate da fronti precisi e da battaglie aperte; le parti coinvolte possono contare su vaste risorse, arte militare sofisticata e livello elevato di controllo del territorio. Si può notare che le guerre civili «convenzionali», «salvo casi di forte polarizzazione politica o etnica», tendono a uccidere un minor numero di persone non in divisa. Le guerre civili di secondo tipo, le «irregolari», sono quelle dove l’asimmetria tra le parti costringe una delle due a combattere una guerra di guerriglia (Vietnam). Quelle del terzo tipo, «simmetriche non convenzionali», si verificano nei Paesi in cui le fazioni opposte hanno in comune un basso livello di risorse e una capacità militare limitata come conseguenza di un’implosione dello Stato (Libano, Somalia, Libia). E sono le più rovinose.
Il più crudele di questo genere di conflitti fu senza alcun dubbio il primo: la guerra civile in Vandea di cui si occupa il saggio di Anne Rolland-Boulestreau. Tre anni di «lotte fratricide» tra il marzo 1793 e il marzo 1796 (ma per alcuni storici vi fu una seconda guerra di Vandea che si protrasse fino al luglio del 1796; poi, in coda, ce ne sarebbero state altre due, una nell’autunno del 1799, e un’altra tra maggio e giugno del 1815).
La guerra vandeana, sintetizza Rolland-Boulestreau, trae origine dal rifiuto della regione, fin dal 1792, di sottomettersi alle leggi rivoluzionarie anticattoliche. La fase più violenta della repressione verrà affidata alle truppe del generale Louis Marie Turreau che, su incarico di Robespierre, creerà le cosiddette «Colonne infernali». Colonne a cui affiderà il compito di sradicare l’«insorgenza reazionaria» con metodi fino ad allora mai usati, quantomeno nei confronti di propri connazionali. La disposizione data da Turreau il 21 gennaio 1794 ai «soldati della Rivoluzione» sarà di passare il nemico «a filo di baionetta». Si dovrà agire – parole sue – «allo stesso modo con le donne, le ragazze e i bambini». Neppure «le persone semplicemente sospette dovranno essere risparmiate». Tutti «i villaggi, i borghi, le macchie, tutto quanto può essere bruciato sarà dato alle fiamme». L’ordine verrà eseguito alla lettera. Ed è quest’ordine che – come scrive Donald M.G. Sutherland in Rivoluzione e controrivoluzione. La Francia dal 1789 al 1815 (il Mulino) – farà compiere alla guerra in Vandea un salto di qualità.
I vandeani presto si doteranno di un proprio esercito guidato da Jean-Nicolas Stofflet e François-Athanase de Charette de La Contrie. Forti della loro conoscenza del terreno e del sostegno di tutta la popolazione, spiega Rolland-Boulestreau, le forze controrivoluzionarie, i «bianchi», sfruttarono al meglio il bocage, il paesaggio tipico della Vandea, i cui sentieri incassati, le siepi, i boschi, gli abitati sparsi, erano inadatti alle truppe regolari, non abituate alla «piccola guerra». L’ambiente ostile, gli ordini contraddittori, la determinazione del nemico, la violenza dei combattimenti e l’abbandono dei compagni d’armi sul campo di battaglia ebbero «effetti disastrosi sul morale delle truppe». Sul terreno, i soldati mandati da Robespierre non riuscirono a nascondere la paura del nemico («come i bambini temono i cani arrabbiati», ricorderà uno di loro). Molti ufficiali e volontari repubblicani, scoraggiati e inorriditi da quel genere di guerra condotta nell’Ovest della Francia, chiederanno di essere assegnati ad altri fronti. La furia della violenza in questa guerra asimmetrica, chiarisce Rolland-Boulestreau, è spiegata per lo più «dall’odio verso la parte avversa che è ancora più forte perché a trovarsi uno contro l’altro sono i cittadini di una stessa nazione, incapaci di condividere un unico progetto collettivo».
Risultato: decine di migliaia di morti (impossibile farne un conto preciso: si calcola tra i centocinquanta e gli oltre duecentomila). Il 95 per cento delle case furono distrutte, si ebbero stupri di massa, sfollati in quantità davvero impressionanti. Dopo la messa a morte di Robespierre (28 luglio 1794), la repressione cessò e Turreau fu tratto in arresto. Ma ben presto la guerra contro le armate vandeane riprese e Turreau fu rimesso in libertà pur senza dover tornare in Vandea. I nuovi repressori non erano più emissari di Robespierre, bensì ufficiali di fiducia di quei termidoriani che avevano mandato Robespierre alla ghigliottina mettendo fine al regime del Terrore. Ed è a questo punto che un rivoluzionario radicale, François-Noël (Gracchus) Babeuf porterà alla luce quello che definì il «populicidio vandeano». Mettendolo nel conto di Paul Barras, del Direttorio, dei successori di Robespierre. I quali verranno a capo, sia pure – come abbiamo visto in maniera non definitiva – della rivolta. Stofflet verrà catturato e fucilato nel febbraio del 1796, Charette subirà la stessa sorte nel marzo dello stesso anno.
Ciò che ancora colpisce di quella vicenda è la dimensione dell’odio che si sviluppa tra repressori e repressi. Un mostruoso precedente per tutte le successive guerre civili come ha dimostrato Jean-Clément Martin in I bianchi e i blu. Realtà e mito della Vandea nella Francia rivoluzionaria (Sei). Di conseguenza, non deve stupire, scrive Anne Rolland-Boulestreau, «che i bianchi vengano tacciati di fanatismo e collocati ai margini della civiltà, assimilati a “orde”, “briganti”, “pezzenti”, tutti appellativi che giustificano anticipatamente, agli occhi dei repubblicani gli accessi che commetteranno contro i civili vandeani». La campagna in Vandea, prosegue Rolland-Boulestreau, «perde a poco a poco il suo carattere militare» e si trasforma in quella che a Parigi viene chiamata «una “caccia agli animali nocivi” o alla “piccola selvaggina”». La «controrivoluzione» costituisce anche per i successori di Robespierre «una minaccia per l’unità nazionale» e deve essere «sradicata». La Vandea è per la Repubblica «una vera e propria malattia» e i vandeani «sono equiparati alla rabbia, alla peste, alla cancrena».
Alla vigilia del bicentenario della Rivoluzione francese fece discutere un libro di Reynald Secher, Il genocidio vandeano (Effedieffe), che, riprendendo le analisi di Babeuf, identificò la Vandea come un’anticipazione dei massacri novecenteschi che si sarebbero posti l’obiettivo di eradicare, financo distruggere minoranze religiose, gruppi etnici, interi popoli. Tesi assai contestata. Ma è certo che le guerre civili successive a quella di Vandea hanno avuto un di più di violenza e – quantomeno a tratti – caratteri di sterminio che precedentemente non si erano manifestati. Quantomeno in quelle proporzioni.