Corriere della Sera, 4 ottobre 2022
Intervista a Fabio Concato
Fabio Concato, pseudonimo di Fabio Bruno Ernani Piccaluga, milanese, classe 1953. Il padre era Luigi Piccaluga, chitarrista e autore jazz più noto come Gigi Concato, a sua volta figlio dei cantanti lirici Nino Piccaluga e Augusta Concato. Nel 1982 arriva il successo con «Domenica Bestiale» in gara al Festivalbar. Non vince ma diventa un tormentone estivo e poi colonna sonora del film di Marco Risi «Vado a vivere da solo» con Jerry Calà.
Oggi attraversa una seconda giovinezza artistica?
«Non saprei, di certo il fatto che Zucchero abbia inserito nel suo ultimo disco il mio brano “Fiore di maggio” mi ha fatto un grande piacere: è stata una bella sorpresa anche perché io non ho rapporti stretti con Fornaciari. Da quanto mi risulta l’ha scelto dopo un’ampia ricerca».
Lei ammette di essere un artista anomalo. In cosa consiste l’anomalia?
«Beh, io sono sempre stato un anarchico. Nel senso che non ho mai avuto un produttore, né la corte dei miracoli di cui molti miei colleghi si circondano. Ho sempre fatto e deciso da solo. Una autonomia selvaggia alla quale non potrei mai rinunciare».
Ha un passato di militanza politica?
«Sì. Ho lavorato per alcuni anni, dal ’67 al ’72 con il Movimento studentesco. Ma non amavo le barricate. Lavoravo di ciclostile, non mi perdevo assemblee e manifestazioni. E ho dedicato molto tempo alle letture politiche. La mia mamma era comunista, militava nell’Udi (Unione donne italiane) e mi ha trasmesso la passione per la politica. In quel periodo ho imparato molto sul mondo del lavoro. E mi è rimasta l’attenzione al sociale. Come dimostra la canzone del 1988 dedicata al Telefono azzurro 051/222525 (era il numero di telefono per i bambini maltrattati ndr). Finì in classifica e i proventi andarono alla meritoria associazione».
Il segreto della sua longevità artistica?
«Negli anni ero diventato stortignaccolo. Ora la longevità artistica parte dallo stato fisico e io camminavo ormai come un vecchietto. Una postura indecente. Mi consulto con uno specialista, che mi dice: “Lei deve smettere di andare a cavallo”. E io: “Mai salito in groppa a un cavallo in vita mia”. Lui insiste: “Eppure alcune vertebre risultano schiacciate da un antico trauma”. Dopo qualche giorno mi ricordo di un incidente vent’anni fa. Ero sul palco più alto d’Italia, quello del teatro di Bagnacavallo, in provincia di Ravenna. A un certo punto... una falcata di troppo e arrivo alla fine del palco. Insomma tento di camminare sul vuoto. Precipito di piatto. Ma mi rialzo subito. Però adesso, a distanza di vent’anni, il mio corpo presenta il conto. A questo punto mi rivolgo a medici esperti e inizio un programma di esercizi. Facili e gratuiti».
Come è andata?
«Dopo qualche mese ho guadagnato davvero 10 centimetri in altezza. Niente tappeti, nessun attrezzo particolare. Però senza sgarrare sulla frequenza e la durata. Risultato: addominali mai visti prima. Un figo. La postura è quella che ti rende più basso o più alto».
A parte gli esercizi qual è la ricetta della sua longevità artistica?
«Non ho mai preso troppo sul serio il mio lavoro. Pubblicavo e pubblico quando sento di avere qualcosa da dire. Godo tuttora di grande credibilità, anche immeritata. Ma questa vita da cane sciolto si è rivelata vincente anche senza inutili presenzialismi televisivi. Non ho “la scimmia” del creare a tutti i costi».
Il suo privato e la sua creatività sembrano strettamente connessi. Come è nato questo «Fiore di maggio»?
«Concepito due settimane prima che nascesse Carlotta che adesso ha 39 anni (è nata nel 1983). Quelli che fanno il nostro mestiere, quando c’è un evento eccezionale come la nascita di una bambina... beh scrivono. La mia storia personale è ambientata in una località che si chiama Viserba, vicina a Rimini, dove mia nonna costruì la prima casa “forestiera” negli anni 20. Io e la mia famiglia ci andavamo da metà giugno alla ripresa della scuola. Appena nata Carlotta è stata portata a Viserba, naturalmente. Era fine di giugno. Affittammo una casina per un paio di mesi. È una canzone che a me non sembrava così “potente”. E invece cominciò a “spaccare” (come dicono i giovani di oggi) subito».
Lei è un’icona della musica leggera italiana, cantautore atipico, dalla timbrica speciale e sempre defilato dallo star system.
«Sì. E non so il perché. È il mio modo di essere e di gestire il mio lavoro».
Puntando sulla faccia da volpino e la timbrica celestiale...
«Un po’ volpino sono sempre stato. Ora semmai volpone, e adesso mi fa anche piacere essere riconosciuto. Infatti quel che conta davvero è la riconoscibilità della voce. Quanto a quella celestiale mah, io comunque la preferisco quando canto. Sono le ore più belle e gratificanti della mia attività. Cantare è un privilegio vero. È il tempo in cui sono me stesso, senza maschere, senza filtri. Dopo 45 anni è una grande fortuna divertirsi come succede a me. Quando parlo la mia voce assomiglia un po’ a quella di Paperino. Quando canto no».
Ma c’è anche la composizione, la scrittura...
«Scrivo un pezzo ogni dieci anni. Non sarà troppo? Però non va dimenticato che io ho scritto 160 canzoni. “Fiore di maggio” è una buona canzone che ha resistito al tempo. Però ci sono canzoni altrettanto importanti...».
Sottostimate?
«Un intero album come “Ballando con Chet Baker” è stato ignorato. Ma è successo anche ad altri artisti. Sa da cosa nasce la frustrazione? Quando la gente ti chiede “quando fai un disco nuovo?” e magari è uscito due mesi prima. Un disco può piacere o non piacere. Ma qualcuno te lo deve far ascoltare. Scrivere una canzone non è esattamente come cucinare, dove basta seguire una ricetta».
Quanto c’è di lombardo nel suo repertorio?
«Nei miei testi c’è una milanesità non palesata. Forse è saltata fuori con “L’umarell” che ho scritto durante la pandemia. Non parlo benissimo il vernacolo, ma “a mi me pias el milanes”, come tutti i dialetti».
Chi è l’umarell?
«In dialetto bolognese “pensionato che si aggira, per lo più con le mani dietro la schiena, presso i cantieri di lavoro, controllando, facendo domande, dando suggerimenti o criticando le attività che vi si svolgono” (così recita lo Zingarelli). Insomma una via di mezzo fra il guardone di manufatti in lavorazione e il gufo di cantiere. Una canzone poetica, commovente, su un tema raramente toccato nella canzone d’autore. Premiato con l’Ambrogino d’oro. Invecchiando, tutti diventiamo un po’ umarell. È andata così: un mio amico mi aveva regalato un umarell di plastica, alto dieci centimetri, che ho piazzato sulla tastiera. Un giorno, durante il lockdown, ho avuto la sensazione che lui mi guardasse e mi dicesse “facciamo qualcosa su quello che sta succedendo? Sei musicista? E allora scrivi una canzone”».
Come ha passato il periodo Covid?
«Leggendo più del solito: è sempre la più bella compagnia, assieme alla musica. Dalla finestra della mia casa scoprivo una Milano che non conoscevo. Il suono degli uccellini che beccavano sul selciato o sui binari del tram. Una sensazione nuova per me».
E Chet Baker? Come nasce la passione per questo musicista al quale ha dedicato un disco?
«Rappresenta un pezzo della mia vita insieme a molti altri. Ho avuto la fortuna di vedere un suo concerto al Capolinea di Milano. Nonostante avesse meno denti del solito (vendette di spacciatori) suonò come un angelo e cantò anche meglio».
Ha fatto un tour con Anna Oxa nel 2004. Come andò?
«Nonostante qualche incomprensione è stata una bella avventura. Purtroppo l’armonia che regnava in palcoscenico non corrispondeva al clima che si respirava dietro le quinte».
Dal suo osservatorio privilegiato come ha visto cambiare il mondo?
«Il mondo mi sembra un manicomio. La musica sta cambiando. Mi auguro che questa fase porti a una musica più vera, più cantabile. Non critico chi fa rap... Mi sembra però che manchi la musica e non è cosa di poco conto. Sono certo che questa fase, in cui la musica è un po’ sacrificata, finirà e porterà a tempi musicalmente più felici. Qualche segno c’è già. Gli ultimi a far musica sono stati Niccolò Fabi e Samuele Bersani. Poi basta. È partita una gara fra chi “reppa” o “rappa”. Non riesco a leggerli con l’orecchio. Ma c’è una cantante di nome Madame fenomenale per modo di cantare, ha una timbrica stupenda e riconoscibile. Madame è ricercata anche negli arrangiamenti. Spero in un ritorno della melodia che non deve essere per forza banale».
Concato nonno?
«Sì, da due anni. Un’esperienza stupenda e parecchio diversa dalla paternità. Si chiama Nina, ma io la chiamo Petardo: è incontenibile e scoppiettante e le ho dedicato una canzone, strano eh? Si intitola “L’aggeggino”».
C’è qualcosa che la mette in imbarazzo?
«La mia incapacità di ricordare facce e nomi. Gente che ho frequentato e addirittura ha suonato con me... niente, il vuoto e un vago senso di colpa».
Come nacque «Domenica bestiale»?
«Nel periodo in cui ero follemente innamorato di mia moglie e si andava a passare la domenica al lago».
E Rosalina?
«Rosalina era una compagna di giochi nella spiaggia di Viserba. Pesava 90 chili e aveva una bellezza speciale. Nonostante la ciccia era simpatica, gioviale intelligente. Si illudeva di dimagrire con la bici. Adesso però è magra».
ta?
«La nascita della prima figlia».