Corriere della Sera, 2 ottobre 2022
Biografia di Andrea Roncato raccontata da lui stesso
Miami Beach, fine estate del 1993 o giù di lì. «Mi ritrovai al Raleigh Hotel con Mickey Rourke, arrivato su una vecchia Rolls Royce cabrio, in canotta, pantaloncini e stivaletti alti da boxe, cappellino a cuffia con codino a pompon, l’aria rintronata di chi si è allenato sul ring e le ha prese. Sobrio, beveva gran succhi di frutta e nuotava a dorso nella piscina liberty, con i suoi due chihuahua accucciati sul torace. Ci eravamo incrociati ai Telegatti. Finì che passammo insieme quindici giorni. Prima di sfondare a Hollywood faceva il cameriere in quello stesso albergo. Mi convinse a tatuarmi un sole azteco sul braccio sinistro da un suo vecchio amico e mi regalò dei sigari Avana appena portati da Cuba, in cambio gli passai la mia scatola di Toscanelli, ne andava matto», racconta Andrea Roncato, 75 anni, icona assoluta dei dorati Ottanta e Novanta. Lo squattrinato conquistatore di Acapulco, prima spiaggia a sinistra – in comico duo con l’amico d’infanzia Gigi (Sammarchi) – l’improbabile Bergonzoni scopritore di talenti calcistici per il 5-5-5 del mister Oronzo Canà di L’allenatore nel pallone, la mamma emiliana con vestaglia fucsia e ferri da maglia che minaccia il figliolo: «Io ti ho fatto e io ti disfo» («Era un mix tra mia madre, mia nonna e mia zia, chi non si divertiva per niente con le battute sul marito poco prestante a letto era mio padre»). Quello dei varietà berlusconiani (Premiatissima, Risatissima) o concorrenti (Domenica In), delle fiction popolari (Don Tonino o Carabinieri). Il più classico vitellone romagnolo della commedia all’italiana, ma infine pure attore drammatico per il trio d’autore Gabriele Muccino-Pupi Avati-Paolo Virzì, in ordine di apparizione.
Papà Bruno era sagrestano.
«Don Arturo era il cugino di mamma, la nostra casetta a tre piani era proprio davanti alla chiesa, da bambino giocavo tra i banchi, mi piaceva l’odore di incenso e il vino rosso e dolce che assaggiavo di nascosto dalle ampolle. Da chierichetto mi offrivo di portare la croce e le candele alle processioni o ai funerali perché mi pagavano belle duecento lire. Poi, quando ho imparato a suonare l’organo, invitavo le ragazzine in canonica e strimpellavo Bach con la speranza di rimediare qualche bacetto».
A dieci anni lezioni private di solfeggio.
«Ero innamorato della maestra di pianoforte. Portava il reggicalze, quando si sedeva accanto a me mi distraevo a sbirciarle le gambe».
Le estati e il Natale in campagna dai nonni.
«Mi sembrava di andare lontano, chissà dove, ma Bologna era a venti minuti di auto. C’erano le galline, i conigli e i buoi, la sera si giocava a briscola nella stalla e quel calduccio avvolgente che c’era lì dentro non l’ho mai più provato. Costringevo le mie cuginette Mirella e Paola a giocare ai cowboy, con le pistole finte, gli zii erano gli indiani, da dietro l’uscio sparavo a mia nonna Argia che cucinava appoggiata al bastone, pam pam».
Poi è arrivato Gigi.
«L’ho conosciuto alla parrocchia di Santa Maria Maddalena, io 12 anni e lui 9, ci si sfidava a pallacanestro. Gigi suonava la chitarra, io il pianoforte, tre anni dopo con altri amici fondammo un gruppo, I Ragazzi della Nebbia, pezzi dei Beatles e dei Rolling Stones. Portavo i capelli lunghi, al collo un medaglione con la faccia di Jfk e mi sentivo fichissimo. Gli strumenti li prendevamo a scrocco dai negozi di musica, con la scusa di provarli, quando abbiamo esaurito i rivenditori di Bologna e provincia ci siamo sciolti».
Siete finiti nel coro di montagna.
«E lì abbiamo cominciato a proporre qualche siparietto comico. Veniva spesso Francesco Guccini, amico del maestro del coro, che preparava una tesi sul canto popolare. Ho visto nascere in diretta molte sue canzoni. “Ho rotto con la mia fidanzata”, ci raccontava. E attaccava con “Vedi cara, è difficile spiegare...”. Quando nel 1970 aprì a Bologna l’Osteria delle Dame, ci chiamò a fare i primi spettacoli di cabaret. La fortuna fu incontrare Bibi Ballandi, che aveva sotto contratto Celentano, Bertè, Vianello e Mondaini, i big».
Tre anni di serate con Sandra Mondaini.
«Ci trattava come figli, in hotel prendevamo sempre le camere vicine e giocavamo a carte fino a notte fonda, chissà che avrà pensato la gente. A Milano ci ospitava a casa sua, Raimondo ci prendeva in giro, però ogni mattina ci faceva trovare Il Resto del Carlino sul comodino».
I primi soldi.
«Mamma Ines era casalinga. Le regalai una pelliccia di visone, la teneva chiusa nell’armadio per paura di rovinarla. Papà guidava un maggiolino scassato. Gli comprai una Bmw. Tremava. Mi ricordo ancora i suoi occhi».
Anni Ottanta, estati ruggenti a Riccione.
«Io, Gigi, Diego Abatantuono, Jerry Calà, Umberto Smaila, Ninì Salerno e Franco Oppini prendevamo in affitto una villona con parco tutti insieme. Bei tempi quelli, cinquemila persone a sera a sentirci. Io e Gerry ci scambiavamo le auto per fingerci ricchi, lui mi cedeva la station wagon, io la Lancia Beta Montecarlo. Che feste, certe notti invitavamo le go-go girls, le ragazze immagine delle discoteche della Riviera, e si buttava l’amo. A volte il pesce abboccava, a volte no».
Eccolo il vitellone romagnolo.
«Ma no, quello solo nei film. Nella vita se una mi piaceva certo che ci provavo, la buttavo sulla simpatia, anche se sa cosa si dice da quelle parti? Che la gran parte dei tedeschi sono figli dei bagnini di Riccione».
Millantò di avere avuto 500 donne.
«Fesserie, non l’ho mai detto. E poi le donne non si contano».
Jeans a vita alta, canotta rossa su torace villoso, il suo Loris Batacchi «capoufficio pacchi» era un buzzurrissimo seduttore seriale («Fantozzi subisce ancora») da 6 mila tacche.
«Una caricatura di quelli che si vantano delle loro conquiste spesso immaginarie, la realtà è che a volte noi uomini siamo patetici, dei fessacchioni».
Moana Pozzi però, nel celebre libello sui suoi amanti celebri, le diede un 7 pieno e la qualifica di «una bella storia di sesso».
Il cabaret per Guccini
Con Gigi iniziammo
a fare siparietti comici nel coro di montagna. Lì veniva spesso Francesco Guccini: quando lui aprì l’Osteria delle Dame, ci chiamò per fare cabaret
«E le sarò sempre grato, è come l’abbraccio accademico del rettore. Ci frequentammo per sei mesi nel 1985, non faceva ancora la pornodiva, l’avevo conosciuta sul set de I pompieri. Oltre che bella, era intelligente e profonda, sapeva parlare di tutto, dal calcio alla filosofia».
Occasionale compagno di bisboccia serale era Berlusconi.
«Grande uomo di spettacolo, molto attento, potevi chiamarlo alle due di notte, a volte invece era lui che telefonava all’alba se non gli era piaciuta una battuta. Si andava a mangiare insieme e poi in discoteca, nel privé. Chiacchierava, scherzava con le vallette, faceva il finto romantico declamando “Silvio, rimembri ancora...”. E soprattutto spendeva un sacco di soldi per quei varietà, da noi venivano come niente Alain Delon, Robert De Niro, Sylvester Stallone. O Tony Curtis che mi chiedeva: “Andava bene la scena? La rifaccio?” A me. Roba da matti».
Paolo Villaggio il terribile.
«Poteva sembrare cinico, ma era affettuoso, colto, adorava prendere il giro il prossimo. Al ristorante era capace di fare impazzire il cameriere ordinando “dei maccheroncini, ma solo 32. O del riso, ma 122 chicchi, mi raccomando”. O si fingeva in bolletta: “Purtroppo non ci pagano da mesi, se scendo a fare una foto con il cuoco ci fate lo sconto?”. Oppure era capace di ordinare champagne Cristal e poi andarsene senza pagare. Non era tirchio, si divertiva così».
Massimo Boldi.
«Grande. Non ha bisogno di battute per far ridere, basta lui, la sua faccia, unico».
Christian De Sica.
«Attore vero. Ci sentiamo spesso, io resto amico di tutti i colleghi, ho bisogno di sentire che mi vogliono bene, non sono invidioso, godo del successo altrui come se fosse mio».
Alberto Sordi, in Vacanze di Natale ’91.
«Sul set lo osservavo di nascosto, sembrava improvvisare, invece era tecnicamente perfetto, un manuale di recitazione. Non potevo crederci che sul manifesto del film il mio nome fosse scritto grande quanto il suo».
Lino Banfi, «L’allenatore nel pallone» 1 e 2.
«Quello bello è stato il primo, giravamo a Rio de Janeiro, Lino era simpatico ma timido. Quando si trovava accanto a qualche stangona mulatta si impappinava e cominciava a invocare la Madonna dell’Incoronèta».
Con Serena Grandi non dica che non ci ha provato.
«Amica. Ci diede una mano quando io e Gigi arrivammo a Roma, due provinciali spaesati».
Con Elena Sofia Ricci invece...
«Siamo stati fidanzati per un annetto. Ero innamorato, ma troppo birichino... finiva che mi mandavano tutte a quel paese».
Carol Alt.
«Un flirtino».
Stefania Orlando invece la sposò nel 1997, Avete divorziato dopo due anni.
«La signora se n’è andata, capita. Sul momento dissi che era colpa mia, che uscivo troppo la sera, che frequentavo compagnie sbagliate, dove girava la cocaina. Allora scrissero che ero finito nel tunnel della droga, quando mai, è stato un periodo, poi si è chiuso, non bevo alcolici, giusto mezzo bicchiere di Lambrusco. Stefania aveva un altro, Paolo Macedonio, punto. In questa storia non vedo santi né eroi, ci sono rimasto male sì, ma nemmeno più di tanto».
Tradito o traditore?
«Si tradisce con qualcuno, è un cerchio, il conquistatore è pure cornuto e le corna bisogna portarle a testa alta. Non si muore per amore, solo se non si trova un amore per cui vivere».
Lei l’ha trovato. Nicole. Sposata nel 2017.
«Mi capisce, mi prende come sono, pregi e difetti, non ho bisogno di cancellare messaggi dal telefonino, la vita del playboy in effetti fa schifo. Collezionare furiosamente donne, auto e orologi è da insicuri, da poveracci».