la Repubblica, 2 ottobre 2022
Intervista a Paola Frandini. Svela l’esistenza di 110 racconti del marito, Antonio Debenedetti, inediti
Oggi è il primoanniversario della morte di Antonio Debenedetti e sua moglie lo festeggia così, svelando l’esistenza di una quantità impressionante di inediti: oltre 110 racconti e una settantina di poesie. Stupiranno, perché pochi sanno che Debenedetti invecchiando era tornato a scrivere versi, in privato senza pensare di pubblicarli. Paola Frandini ha lavorato mesi a sistemare le carte, indicizzandole, ordinandole, revisionandole e oggi le mostra in anteprima aRepubblica. L’elenco si aggiunge a fogli, dvd, chiavette Usb che, in qualità di erede testamentaria, curatrice e responsabile dell’opera del marito, Frandini ha già donato al Gabinetto Vieusseux.
Il vostro è stato un lungo sodalizio umano e intellettuale.
«Stavamo per festeggiare i cinquant’anni di vita insieme, anche se ci siamo sposati molto tardi e abbiamo sempre vissuto in case separate. Un giorno Antonio mi ha detto: ti ci vorranno sei messi a sistemare tutto quello che ho lasciato. Ce ne sono voluti sette ma è stata la mia salvezza nelle giornate di angosciosa solitudine».
Ci spostiamo, dietro la porta di uno sgabuzzino, spuntano altre cartelle.
Di che si tratta?
«Quattro o cinque romanzi, tra cui uno epistolare e un giallo. C’era anche un romanzo sulla madre, che non ha voluto pubblicare. Ha inseguito quel libro per anni, ha persino tentato di frazionarlo in racconti. Lei mi chiede perché.
Non lo so. Forse, la profonda intesa con la madre gli è stata d’intralcio.
O, forse, il rapporto complicato ma sempre vivo col padre, raccontato inGiacomino, lo ha fermato».
Un confronto ingombrante?
«Un dialogo mai spento. Tra le carte, ho trovato un’autointervista sul padre. Comincia facendo sua la frase della Lettera al padre di Kafka: “avevo paura di te”. Poi, la “paura” fa posto a sentimenti complessi e diversi, fino a provare pena per l’uomo Giacomo. Il coraggio e la fermezza di Giacomo contro la paura delle leggi razziali, contro l’emarginazione, contro il dover rinunciare al proprio nome e dover però mantenere immutato il suo stile, per non allarmare i figli ancora piccoli. Insomma: vincere il dolore con la volontà. Sentimenti che si ritrovano nei racconti inediti a tema ebraico».
Lei ha dedicato un bel saggio al critico Debenedetti, “Il teatro della memoria”.
«Quando stavo lavorando a quel libro Antonio mi scrisse: “Tanti auguri per il tuo Giacomino, che sia anche per te difficile padre”».
Che rapporto avevate?
«Molto bello e molto strano.
Eravamo entrambi tipi complicati. Un giorno mi ha detto: “il nostro èun grande amore, non abbiamo mai litigato”. E io: “ma se stiamo sempre a contraddirci”. La risposta fu spiazzante, nel suo stile: “ma che c’entra, le nostre sono reazioni nervose di due persone particolarmente intelligenti”.
Negli ultimi giorni mi chiamava: “Paola, ho paura! Aiutami”. Ma io non ho saputo aiutarlo. Invece lui ha aiutato e sta aiutando me. Con la sua presenza, sì proprio la presenza! Mi consente di parlargli, di indovinare la sua faccia dei momenti sì e quelli no, riesco persino a scherzare con lui. Se non sbaglio Freud ha detto che il lutto stretto dovrebbe durare un anno. Beh, l’anno è passato, e allora?».
Eravate complici anche nel lavoro?
«Mi leggeva sempre quello che scriveva, anche gli articoli. Negli ultimi due anni però era stanco, deluso e non lo faceva più.
L’epidemia di Covid ha coinciso per Antonio con un affiorante senso divanitas, di solitudine, di delusione per la fine di un mondo. Del suo mondo. Percorreva quellaRoma vuota, metafisica, senza tracce umane come un superstite, senza speranze di futuro».
Si può comprendere, era un flâneur, uno scrittore urbano.
«Uno dei suoi racconti preferiti era
L’uomo della folla di Edgar Allan Poe. Spesso si muoveva sulle tracce dei suoi personaggi: strade e piazze della Roma del centro e della periferia. Purtroppo, da un po’ di tempo era come ammaccato, ferito. Sentiva perdersi la cultura in cui era vissuto. Antonio veniva da una famiglia particolare, che incrociava ebraismo e nobiltà. La madre Renata, dei marchesi Orengo, era bella, molto intelligente e coraggiosa. Ricordo una volta mi disse di sé: “io ho due spallacce”. La nonna Valentina, dalla quale si rifugiava quando in famiglia c’era maretta, era russa. In casa era passata la cultura del ’900, un elenco senza fine. Saba, Caproni, Morante, Longhi, Bobi Bazlen, Moravia, Sartre, de Beauvoir, Cecchi, Natalia Ginzburg, Leo Spitzer, Neruda, anche Thomas Mann se non sbaglio».
E voi come vi siete conosciuti?
«Fu alla Sapienza, all’Istituto di Storia dell’arte. Una mattina, la sorella Elisa, non ricordo altro, mi disse con il suo accento un po’ torinese: “mio fratello è un genio”.
Ci presentarono più tardi a un matrimonio. Ci rimasi male però, perché Antonio dandomi la mano girò la testa dall’altra parte. Dopo mi ha confessato che era in imbarazzo: “mi ero intimidito”.
Perché, poi?».
Il suo esordio, nel 1958, è una raccolta di versi.
«Al poeta ventenne seguì il narratore. Poi, nella maturità e nella tarda maturità è tornato ai versi. In archivio, nascosto tra le pagine dei tanti racconti inediti c’è un fascicolo di poesie, copiate molte su un piccolo libro di fogli celesti e copertina cartonata blu. È del 2004 una confessione discreta: “Amo i ricordi / che regalano/ alla vita/ la musica /d’una rima/ fresca e leggera”».
Perché non le ha pubblicate?
«Non voleva. Quando insistevo si smarcava, “ma no, le poesie le scrivono i ragazzi”. La raccoltaRifiuto di obbedienza l’aveva introdotta Giorgio Caproni. Ebbe successo: Elsa Morante lo riconobbe vero poeta e Ungaretti lo candidò per il premio Viareggio. Ma Giacomo si oppose».
Per quale motivo?
«Forse sentiva che quel figlio gli sfuggiva. Forse voleva prepararlo alle delusioni della vita. Un insegnamento crudele ma protettivo come deve fare un padre, un padre ebreo. Antonio la poesia l’ha avuta nell’anima da sempre. Bambino, se ne moriva per avere la bicicletta. Visto che non arrivava scrisse sul muro della sua camera: “Corre la bicicletta / mi vola nel cuore”. I suoi primi versi. E la bicicletta arrivò: rossa».
Quali sono i temi di questi racconti inediti?
«Molti sono di argomento ebraico.
Ce ne sono alcuni che somigliano a
E fu settembre, e finiscono proprio come la storia di Enrichetto Norzi catturato dai tedeschi. Pensare che quel racconto non lo voleva pubblicare, fui io a convincerlo. A questo si riferisce la dedica: “Io ho scritto e dubitato / tu hai letto e capito / e di due facemmo uno”.
Non c’è solo l’ebraismo. Antonio ha creato tipi e situazioni le più diverse. I racconti più lunghi hanno un passo realistico, anche se un realismo un po’ magico. Quelli brevi sono pura poesia. Ma basta, io sono la moglie, non un critico».
A giudicare dalla quantità, pare stesse sempre a scrivere.
«Lavorava dalla mattina alla sera.
Con qualche pausa per gli articoli, o per ricevere giovani studiosi. Non voglio però restituirne un santino.
Cedeva a rabbie violentissime. A volte era prepotente, a volte disarmato come un bambino.
Ruggero Savinio, amico d’infanzia, ha stretto il ritratto di Antonio in un solo aggettivo, però da grande artista. L’aggettivo-ritratto è “fremente”. Non serve altro!».