la Repubblica, 2 ottobre 2022
Il partito della bomba
«Quando me ne andai, nelle strade dell’Avana i giovani cantavano “Nikita, mariquita, lo que se da, no se quita”, “Nikita, f…, non si tolgono i regali”…»: così lo scrittore peruviano premio Nobel Mario Vargas Llosa ricorda l’ottobre 1962 quando, inviato a Cuba per una tv francese, seguiva la crisi dei missili fra il presidente americano John Kennedy e il rivale sovietico Nikita Chruš?ëv. Dopo tredici giorni terribili, dal 16 al 29, l’Urss cede, ritirando le testate atomiche da Cuba, e il ventiseienne Vargas Llosa, accorso, racconta nelle memorie Il richiamo della tribù (Einaudi), «commosso fino al midollo», scopre con raccapriccio che i militanti castristi insultano Chruš?ëv perché volevano armi atomichee guerra totale. Anni di pace, film pacifisti come
The day after,che con le immagini del Kansas incenerito da testate H tenne, il 20 novembre del 1983, 100 milioni di americani davanti alle tv, l’epopea 2006 de La strada di Cormac McCarthy, romanzo premio Pulitzer, poi film struggente di John Hillcoat, ci han fatto dimenticare la lezione del ragazzo Vargas Llosa: da Hiroshima e Nagasaki 1945, le armi atomiche hanno il loro “Partito”, che le rivendica non come deterrenza, minaccia, ma arma di primo attacco.
Chi ricorda l’ufficiale di Marina sovietico Vasili Arkhipov che, a bordo di un sottomarino armato di siluri atomici, il 27 ottobre 1962, al largo dell’Avana, si vide messo a segno da ordini di profondità Usa? Due suoi colleghi, senza contatti radio con la patria, decidono che la guerra nucleare è cominciata e predispongono il lancio. Arkhipov impugna il regolamento, impone l’unanimità degli ufficiali, e salva l’umanità. Ventuno anni dopo, 26 settembre 1983, tocca al tenente colonnello Stanislav Petrov scongiurare l’olocausto. Sul suo video appare l’allarme “Lancio!”, cinque missili Usa Minuteman sarebbero stati in volo verso l’Urss,si doveva contrattaccare su Europa ed America. Il presidente Reagan aveva varato il programma Guerre stellari, aria di Guerra fredda, e il primo settembre un missile Sukhoi di Mosca aveva abbattuto un aereo di linea sudcoreano, scambiato per un volo spia, 269 morti innocenti e, a lungo, disinformazione del Cremlino.
Petrov non scatta, aspetta e pochi minuti dopo scopre che il falso blitz altro non era che riflesso del sole sulle nuvole. Secondo studi del Congresso americano, le due superpotenze avevano allora un totale di 59.109 testate, capaci di cancellare dalla Terra 288 milioni di esseri umani nel primo lampo, e fino a due miliardi nell’inverno nucleare, carestia e guerre a seguire. William Perry, 89 anni, ex segretario della Difesa, ricorda la chiamata stravolta di un ufficiale, «duecento razzi atomici russi ci volano contro, che facciamo?», solo per scoprire un «errore tecnico». E le tre testate all’idrogeno cadute, per incidente, nel 1966 a Palomares, in Spagna, la quarta inabissata nel Mediterraneo?
Oggi il presidente russo Vladimir Putin, battuto sul campo in Ucraina, ripete la minaccia di «armi atomiche a bassa intensità» e il Partito della Guerra interno, vedi il satrapo ceceno Ramzan Kadyrov, lo aizza. Iblogger militari russi rilanciano e c’è chi dice, a Mosca, che l’attentato in cui ha trovato la morte in agosto Darya Dugina, figlia del leader nazionalista Aleksandr Dugin, sia messaggio agli estremisti di casa: non alzate troppo il tiro.
McGeorge Bundy, consigliere per la Sicurezza nazionale di Kennedy, scomparso nel 1996, chiacchierando del suo saggio monumentale sulla strategia nucleare, Danger and survival: choices about the bomb in the first fifty years, 1988, mi disse con il sorriso aristocratico di Boston: «Voi parlate della crisi a Cuba, ma andammo più vicino allo scontro atomico sulle dimenticate isole Quemoy e Matsu, scogli ignoti». Tra il 1954 e il 1955, la Cina di Mao Zedong bombardò a tappeto l’arcipelago di Quemoy e Matsu, disputato ai nazionalisti di Chiang Kaishek. Davanti al blitz, il capo di Stato maggiore Usa, ammiraglio Arthur Radford, predispose all’unanimità piani di attacco atomico, se Mao avesse ordinato uno sbarco di massa.
Il poeta beat Gregory Corso leggeva nel 1958, a Oxford, i suoi versi, “Motore della Storia Freno del Tempo Tu Bomba Giocattolo dell’Universo…”, poema su una sola lunghissima pagina, con il testo ad assumere la sagoma del fungo nucleare e, nel 1966, la band italiana “I Giganti” canticchiava ironica «Noi non abbiamo paura della bomba…»: tempi perduti. Nel 1994, con i Memorandum diBudapest, l’Ucraina indipendente rinunciò alle armi nucleari, in cambio di rispetto dei confini da parte del Cremlino. Kiev controllava un arsenale formidabile, 5.000 testate anche termonucleari, pari a Usa e Russia. Volodymyr Tolubko, comandante militare e parlamentare, ammonì invano i connazionali: «Siete romantici e avventati… conserviamo qualche missile, terrà a bada i russi». Non lo ascoltarono, persuasi che “la Bomba” fosse arnese obsoleto del XX secolo: è arma decisiva del XXI, ora l’Ucraina lo sa, con amarezza, e nessun Paese, mai più, vi rinuncerà.