Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  ottobre 02 Domenica calendario

Un altro ritratto di Gorbaciov

Michail Gorbaciov, l’ultimo leader dell’Unione Sovietica, è morto il 30 agosto a Mosca all’età di novantuno anni. Negli ultimi due decenni ha concesso interviste molto di rado. Perciò, quando nel 2010 accettò di parlare a un giornalista della rivista moscovita che dirigevo, provai sì un timore reverenziale, ma ebbi anche qualche perplessità: era un’occasione unica, e quasi certamente sarebbe andata sprecata. Era risaputo che non sapeva farsi intervistare. Dava risposte lunghissime; cambiava argomento di continuo; quasi mai finiva una frase. In un guizzo di disperazione, io e i miei colleghi chiedemmo ai lettori di mandarci delle domande. Qualcuno chiese: «C’è qualcosa che potrebbe farla felice in questo momento?». La risposta di Gorbaciov fu concisa: «Se qualcuno mi garantisse che nell’aldilà vedrò Raissa – disse -. Anche se non credo a queste cose». Raissa, che per quarantasei anni era stata sua moglie, era morta di leucemia nel 1999.«Non sono credente», continuò Gorbaciov. Nemmeno Raissa lo era stata, ma «aveva fatto progressi più velocemente di me, in questo senso». Quel che sembrava voler dire era che Raissa si era tenuta al passo con il suo Paese ed era diventata una russa post-sovietica, mentre Gorbaciov era rimasto, nella sua essenza, un uomo sovietico. La sua era la storia esemplare di un apparat?ik: reclutato dal partito nella campagna della Russia meridionale quando era ancora uno studente delle superiori, poi l’università a Mosca e una serie di impieghi come funzionario di partito, culminati nel 1985 con la nomina a Segretario Generale del Comitato Centrale, la carica più alta dell’Urss.All’epoca era giovanissimo: aveva cinquantaquattro anni. Era circondato da ottuagenari che si aspettavano deferenza e gratitudine. Lui però nella vita aveva un amore più grande, un dovere di lealtà che superava qualsiasi debito verso il partito e il suo barcollante direttivo. Gorbaciov viveva e lavorava per guadagnarsi l’ammirazione di Raissa. Si erano conosciuti all’Università Statale di Mosca, dove lui studiava legge e lei filosofia. I compagni di corso di Raissa erano uno straordinario gruppo di pensatori sovietici del dopoguerra, e fu questo, forse più di ogni altra cosa, a contribuire a plasmare le linee politiche che saranno per sempre associate al nome di Gorbaciov: Glasnost e Perestrojka.Poche settimane dopo essere diventato Segretario Generale, annunciò di voler riformare e modernizzare l’Unione Sovietica. Nel giugno del 1987 introdusse un nuovo concetto: quello di Perestrojka, ovvero la ristrutturazione delle politiche sovietiche, in ogni settore. Anche se non lo disse esplicitamente, con ristrutturazione intendeva liberalizzazione: l’Unione Sovietica avrebbe legalizzato l’autonomia delle imprese e allentato le maglie della censura, ammettendo la pubblica discussione di argomenti che fino a quel momento erano stati tabù.Le leggi sulla censura non vennero mai abolite, ma la riduzione delle restrizioni – l’obiettivo dichiarato della Glasnost – portò a una crescita senza precedenti della scrittura, dell’editoria, del cinema, del teatro e della musica. Riviste semi-sconosciute che pubblicavano interminabili articoli di stampo accademico videro aumentare vertiginosamente la propria tiratura. La gente faceva la coda per leggere le nuove edizioni di giornali come il Moscow News, o per entrare a teatro a vedere l’opera appena messa in scena da Ljudmila Petruševskaja, per fare un esempio. Spesso il motivo era che la rivista, il giornale, il drammaturgo affrontavano l’argomento, in precedenza censurato, del terrore staliniano. Per la prima volta dalla morte di Stalin, nel 1953, i cittadini sovietici parlavano pubblicamente del proprio passato.Gorbaciov teneva molto a salvaguardare questo aspetto della sua eredità politica. Nel 2008, in collaborazione con il periodico indipendente Novaja Gazeta, mise insieme un gruppo di lavoro con lo scopo di creare un museo sul terrore staliniano. In quanto Segretario Generale, disse, aveva accesso a tutti gli archivi. Qui si era reso conto che spesso le purghe venivano eseguite a caso, e le persone arrestate e giustiziate senza aver commesso crimini; a volte non erano nemmeno sospettate o accusate di averne commessi. Semplicemente, ogni ente locale di polizia doveva raggiungere un certo numero di arresti e uccisioni. Aveva poi scoperto che all’apice del terrore, quando ogni giorno si giustiziavano migliaia di persone, i leader sovietici davano il loro consenso firmando intere pagine piene di nomi: decine di nomi per pagina. Gorbaciov aveva creato una commissione preposta a esaminare milioni di casi dell’era staliniana, che annullò centinaia di migliaia di verdetti di colpevolezza, e parlava di quel che aveva appreso con disgusto e incredulità.Ecco un’altra qualità che lo distingueva da qualsiasi leader sovietico venuto prima di lui: c’erano cose che lo sconvolgevano. La sua visione del mondo poteva essere messa in discussione e cambiata; anche lui poteva cambiare, o almeno così sembrava. Non si poteva dire lo stesso del suo successore: fu presto chiaro che il museo voluto da Gorbaciov non potesse esistere nella Russia di Vladimir Putin, troppo impegnato a cancellare il ricordo del terrore staliniano dalla sua versione della storia russa.A Gorbaciov è attribuito il merito di aver smantellato l’Unione Sovietica, e per lo stesso motivo c’è chi lo detesta. Agli inizi della sua carriera, però, lui di certo non immaginava che avrebbe cambiato il mondo. Nel 1987 liberò tutti i prigionieri politici dell’Urss: al tempo, svariate centinaia. (Attualmente in Russia sono detenuti più prigionieri politici di quanti ce ne fossero negli anni Ottanta). La Glasnost e la Perestrojka permisero a chi criticava la struttura sovietica di avere una voce. Andrej Sacharov, dissidente eletto al Soviet Supremo in seguito alla liberazione dall’esilio nell’odierna Nižnij Novgorod (liberazione voluta da Gorbaciov), contestò il monopolio del Partito Comunista. Galina Starovoitova, un’etnografa poi entrata in politica, sosteneva che l’impero andasse sciolto, e propose un trattato d’unione che potesse sostituire la struttura coloniale sovietica. Gorbaciov respinse entrambe le proposte.Nel 1989 l’Unione Sovietica di Gorbaciov sciolse la presa sui suoi satelliti europei: i Paesi che Mosca aveva governato a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale. Una dopo l’altra, la Polonia, la Repubblica Democratica Tedesca, l’allora Cecoslovacchia, la Romania e altre nazioni fecero cadere i loro governi filo-sovietici. Ma quando le colonie interne della Russia – ovvero quei Paesi inglobati con la forza dall’Urss, e non semplicemente dominati – pretesero l’indipendenza, Mosca reagì con la violenza. Nell’aprile del 1989 le autorità soppressero brutalmente le proteste a favore dell’indipendenza nella capitale della Georgia, Tbilisi, uccidendo almeno ventuno persone e ferendone duecentonovanta. Quando i Paesi baltici (occupati dall’Unione Sovietica nel corso della Seconda guerra mondiale) dichiararono l’indipendenza, le truppe sovietiche ammazzarono degli attivisti a Riga, la capitale della Lettonia, e a Vilnius, quella della Lituania; era il gennaio del 1991.Molti tributi a Gorbaciov gli riconoscono il merito di aver presieduto alla dissoluzione “pacifica” dell’Urss, dimenticando che i conflitti in Armenia, Azerbaigian, Moldavia, Tagikistan, eccetera, erano (in alcuni casi sono, anche oggi) tutt’altro che pacifici. Nel marzo del 1991, dopo che la Russia e l’Ucraina, oltre ai Paesi baltici, votarono per uscire dall’Unione, Gorbaciov indisse un referendum volto a preservarla. Sei delle quindici repubbliche che la costituivano rifiutarono di partecipare, ma Gorbaciov affermò che le altre nove ratificavano la prosecuzione dell’impero.Nell’agosto del 1991, un gruppo di intransigenti della vecchia guardia tentò un colpo di stato. Imposero a Gorbaciov gli arresti domiciliari nella sua residenza estiva in Crimea, e dichiararono lo stato d’emergenza, reinstaurando la censura. Tre giorni più tardi il golpe era stato sventato, ma Gorbaciov tornò a Mosca da anatra zoppa: era stato rimpiazzato da Boris Eltsin, il leader di una Russia ormai indipendente. A dicembre, Eltsin e i leader di Ucraina e Bielorussia negoziarono lo scioglimento dell’Unione Sovietica. Gorbaciov si dimise dal ruolo di capo di un Paese che non esisteva più. Sarebbe stato disposto a ricorrere alla violenza e al voto truccato per far sopravvivere l’Urss, non per rimanere al potere.Gorbaciov apparteneva a quella rara tipologia di politico che agisce secondo la convinzione che il mondo e i suoi abitanti – lui compreso – possano essere migliori di come appaiono. La vera tragedia della sua vita politica è il fatto che negli ultimi ventitré anni la Russia sia stata governata da un politico di specie opposta. Vladimir Putin è convinto che l’umanità sia marcia dentro, e tutte le sue azioni, in un modo o nell’altro, sono volte a confermare questa visione del mondo. Negli anni della Perestrojka, Putin era un giovane funzionario del Kgb a Dresda, nella Germania Est. Non era in Russia quando le sue strade sembravano solcate da un inebriante vento di libertà, ma si trovava in Germania Est quando Mosca rinunciò a Berlino. Non ha mai perdonato a Gorbaciov di aver abbandonato i funzionari del Kgb a Dresda, né di aver detto addio alla nazione satellite e al sogno di un gigantesco impero europeo. (Il 30 agosto il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, ha detto che il presidente russo avrebbe porto le più sentite condoglianze alla famiglia). Il suo risentimento per Gorbaciov lo accomuna a buona parte dei russi, i quali associano l’ex Segretario Generale all’instabilità, al caos, e alla fine di tutto ciò che per tanto tempo era stato loro familiare. Con alcune eccezioni, l’intellighenzia – cioè coloro che probabilmente trassero i maggiori benefici dalla politica della Glasnost – smorzarono l’apprezzamento che nutrivano nei confronti di Gorbaciov con un sincero disprezzo: per come represse i movimenti indipendentisti, certo, ma anche per il suo modo di parlare. In Occidente, dove un tempo era molto stimato, le sue parole venivano tradotte da interpreti che trasformavano i suoi sproloqui in una serie di frasi ordinate. Alle orecchie dei russi era un uomo che non riusciva mai a concludere una frase o ad arrivare al punto, e con un accento che lo faceva sembrare uno zotico di campagna.Dopo aver lasciato il suo incarico, Gorbaciov si tenne perlopiù alla larga dalla scena pubblica. Fondò un think tank chiamato Fondazione Gorbaciov. Si dedicò alla beneficenza. Provò, fallendo, a mettere in piedi il museo sulle purghe staliniane. Nel 2013, quando Putin represse una serie di proteste, promuovendo poi delle leggi che avrebbero reso quasi impossibile protestare, Gorbaciov durante un’intervista esclamò: «Non avere paura del tuo popolo, santo cielo!». Ma non rilasciò mai dichiarazioni contro l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014, né sull’invasione dell’Ucraina.Alla fine, pur essendo il meno sovietico tra tutti i leader sovietici, rimase la personificazione stessa del sistema sovietico. Ad avere dei limiti era la sua immaginazione, non le convinzioni e le istituzioni della sua gioventù, che si erano sgretolate rapidamente. Anche mentre la Russia si lanciava in un’aggressiva guerra coloniale, Gorbaciov sembrava incapace di immaginare cosa il suo Paese potesse essere, non essendo più un impero.—Traduzione di Francesca Pellas