Il Messaggero, 2 ottobre 2022
I giapponesi vanno in pensione anche a 80 anni
In Giappone oltre un terzo della popolazione circa 40 milioni di persone hanno più di 65 anni. La maggior parte lavora ancora. Alcuni vanno avanti fino a 80, 90 anni. Come Kazuo Morita, 91 anni: tre anni fa si era finalmente ritirato, lasciando al figlio il suo avviatissimo ristorante di sushi. Poi un vecchio cliente si è lamentato, dicendo che non era più la stessa cosa. Lui ha convocato il figlio, gliene ha dette di tutti i colori ed è tornato tra i suoi fornelli, pardòn, coltelli.
Poi c’è Masako Wakamiya, arzilla vecchietta di 87 anni, ex impiegata di banca. Stufa di starsene in casa senza far nulla, un giorno si mette a giocare con il cellulare di un nipote. Ma non ci capisce nulla. Allora prende e scrive a Tim Cook, boss della Apple: «Devi fare qualcosa anche per noi vecchi». Lui le risponde, chiedendole consigli. Lei ci si mette di impegno e nel giro di poche settimane inventa, ispirandosi ad una delle più popolari feste tradizionali del Giappone, Hinadan. Da hina, bambola e dan, scaffale. Metti a posto le bambole.
Oggi in Giappone l’hanno scaricato e lo giocano regolarmente – milioni di persone: è di gran lunga il videogioco più popolare tra gli anziani. Lei tiene lezioni on line e sta già lavorando ad una nuova edizione. E continua ad avere un regolare contratto di consulenza con la Apple.
Attenzione, però. Un conto è continuare a lavorare per scelta, altro per necessità. Perché nel primo caso si tratta di un invidiabile privilegio, nel secondo di una crudele, inaccettabile condanna. «Inizio ancora la mia giornata alle 5 del mattino, mi faccio una doccia gelata e vado al mercato del pesce, a scegliere personalmente quello che poi voglio servire ai miei clienti racconta l’ultranovantenne Morita poi vado al ristorante a comincio a preparare il riso. Mi sento un privilegiato, è vero: non avete idea di quanto sia bello sapere che la gente apprezza quello che fai. Ecco perché ogni giorno ringrazio in cuor mio, e se capita anche pubblicamente, i miei clienti, i miei impiegati. Ma anche il pesce, il riso, l’acqua. E mi inchino profondamente davanti ai miei coltelli». Fa molto giapponese, no?
Ma forse è con meno entusiasmo e senso di gratitudine che ogni mattina, o nel cuore della notte, visto che spesso sono coloro ai quali vengono riservati i turni più pesanti – si recano al lavoro decine di migliaia di anziani per integrare le loro misere pensioni con lavori pesanti. Soprattutto nel settore edile, che in Giappone è stato e continua ad essere uno dei motori dell’economia.
Chi è stato in Giappone avrà notato che i cantieri sono aperti 24 ore su 24, specie nelle grandi città, e che sono in genere presidiati da decine di persone addette alla cosiddetta sicurezza. Restano in piedi per almeno 6, spesso 8 ore, sotto ogni forma di tempo: in mano hanno un bastone luminoso che agitano continuamente per segnalare la presenza del cantiere. Lo fanno tutti con molta serietà e dignità, ma dubito che provino gratitudine come il buon Morita la nutre per i suoi coltelli per il loro bastone luminoso.
Torniamo dunque al lavoro come scelta/privilegio, o come necessità/condanna. Un concetto che non riguarda solo gli anziani, ma oramai anche i giovani. Anche loro, in Giappone come altrove, si trovano spesso difronte al dilemma se accettare un lavoro malpagato e inferiore alle loro competenze e aspettative, o rifiutarlo ma a rischio di restare disoccupati.
Che in Giappone anche se la situazione sta un po’ cambiando negli ultimi anni è considerata una colpa. Tant’è che a nessuno, ma proprio a nessuno, è ancora venuto in mente di proporre l’equivalente del nostro Reddito di cittadinanza. Nel frattempo, aumenta pericolosamente la mancanza di comunicazione in famiglia.
Il rapporto con i genitori. Secondo un recente sondaggio il 70% dei giovani cinesi ed il 60% di quelli americani parla in famiglia dei propri problemi e nutre rispetto per i propri genitori. In Giappone solo il 36%, uno su tre.