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 2022  ottobre 02 Domenica calendario

Il tracollo del bitcoin

Quando nel 2016 per lo più medio e piccoli risparmiatori hanno comprato criptovalute sperando di arricchirsi, non sapevano che avrebbero pagato salato il conto della loro inesperienza. Si sono avvicinati a un asset instabile e speculativo senza comprenderne a fondo i rischi, con l’ingenuità di chi sperava di risolvere i propri problemi economici velocemente. Il tonfo che ne è seguito ha epurato così il mercato delle valute digitali dall’effetto “pubblicità”, lasciandolo di fatto nelle mani di chi allora approfittò del momento per prendere confidenza col prodotto e declinarlo in opportunità imprenditoriali di lungo termine: aziende, fondi, banche, investitori esperti si sono buttati sulle valute digitali, e poi sugli Nft, elevandone lo status a quello degli strumenti finanziari tradizionali in attesa dei regolatori (che però non procedono alla stessa velocità).
Così oggi si inaugura una nuova era: il bear market delle criptovalute in cui si sta entrando a pieno ha tutt’altro valore rispetto al precedente. Bancarotte, insolvenze, sofferenze, blocchi delle operazioni, crisi di liquidità, licenziamenti e vendite record riguardano società importanti, con grandi clienti, migliaia di dipendenti e un indotto strutturato, anche tecnico. L’inflazione e l’aumento dei costi dell’energia non aiutano.
La società di mining texana Compute North, che offre servizi e strutture di hosting legate all’industria delle criptovalute, nonché hardware per il mining di Bitcoin, è l’ultima in ordine di tempo a dichiarare bancarotta. È in pratica uno dei maggiori fornitori di data center per il settore negli Stati Uniti. Il ceo Dave Perrill si è dimesso e ora dal consiglio di amministrazione dovrà – come previsto dalla legge statunitense – vigilare sulla prosecuzione delle operazioni ma soprattutto sull’elaborazione di un piano per rimborsare tutti. Compute North deve infatti circa 500 milioni di dollari a 200 creditori e ha beni per un valore compreso fra i 100 e i 500 milioni di dollari.
A fine giugno, invece, il broker Voyager ha emesso un avviso di inadempienza nei confronti del cripto hedge fund Three Arrows Capital (3AC) per non aver effettuato pagamenti su 675 milioni di dollari di prestiti in bitcoin e stablecoin. Tra sovra-gestione rispetto alle autorizzazioni e sell-off sui suoi investimenti rischiosi (che pare includessero scommesse sovraindebitate sul Grayscale Bitcoin Trust e circa 200 milioni di dollari in Luna, oramai senza valore), si è ritrovata da un giorno all’altro a liquidare i suoi beni ed è stata dichiarata insolvente. Di conseguenza, la stessa Voyager ha dichiarato bancarotta, quattro giorni dopo aver sospeso le negoziazioni. Qui i creditori dovrebbero essere circa 100mila. Subito dopo è toccato alle criptobanche Celsius, che ha dichiarato fallimento a luglio per passività e prestiti di diversi miliardi di dollari, e a Vauld che ha annunciato una ristrutturazione. Ad agosto la piattaforma di deposito di criptovalute Hodlnaut ha sospeso i prelievi e presentato domanda di protezione dei creditori all’Alta Corte di Singapore per evitare una “liquidazione forzata” che, dice, la costringerebbe a vendere gli asset dei clienti a prezzi molto bassi.
Il valore delle criptovalute, infatti, al momento è ai minimi: Bitcoin è scesa sotto i 20mila dollari come non accadeva da un anno e alcune società sperano di essere salvate prima di essere costrette a chiudere rivolgendosi a partner più stabili. Goldman Sachs, ad esempio, pare stia cercando di raccogliere 2 miliardi di dollari per asset in difficoltà. Mosse che, secondo alcuni analisti, farebbero ben sperare sul futuro del comparto e sulla sua ripresa.
Il passato però è stato disastroso e buona parte dell’effetto a catena è stato generato dallo scandalo Luna. Il Token che al massimo della sua salute capitalizzava 40 miliardi di euro, a maggio ha perso praticamente tutto il suo valore nel giro di sette giorni dopo che il token collegato TerraUSD, una stablecoin agganciata al prezzo del dollaro, ha interrotto il suo ancoraggio. Subito dopo le principali cripto hanno perso tra il 65 e il 75 per cento del loro valore e da allora non si sono più riprese. Le prospettive? L’inverno crittografico del 2017 ha impiegato più di tre anni per terminare.
I licenziamenti di massa sono una conseguenza, per lo più inedita, legata a questa nuova fase. Secondo Forbes, che sta tenendo traccia di tutto ciò che accade, sono già stati licenziati, da giugno, più di 3mila lavoratori. Coinbase, un’istituzione tra le piattaforme di scambio di criptovalute, starebbe lasciando a casa 1.800 dipendenti, circa il 18% della sua forza lavoro. In una nota, il ceo Armstrong ha ammesso che l’azienda “è cresciuta troppo rapidamente” durante il mercato rialzista della pandemia. Sempre a giugno, Gemini, l’exchange fondato dai gemelli miliardari Winklevioss, ha dichiarato che avrebbe tagliato circa il 10% dei suoi mille dipendenti e gli omologhi Crypto.com e BlockFi che avrebbero licenziato rispettivamente il 5 e il 20% della loro forza lavoro, quindi tra i 150 e i 260 dipendenti. Celsius ha già licenziato 150 lavoratori e la piattaforma commerciale austriaca Bitpanda ha tagliato 270 posti di lavoro, definendo la mossa “necessaria per superare la tempesta e uscirne finanziariamente in salute”.
Negli ultimi due mesi, anche la società specializzata in Nft OpenSea ha licenziato circa il 20% della sua forza lavoro dopo che a gennaio era stata valutata 13,3 miliardi. “La realtà è che siamo entrati in una combinazione senza precedenti di cripto inverno e ampia instabilità macroeconomica, e dobbiamo prepararci”, ha detto il ceo Devin Finzer, un 32enne diventato miliardario quest’anno. C’è chi ha vinto e chi sta perdendo. Per molti è solo l’inizio.