Tuttolibri, 1 ottobre 2022
Su "Tabacco Clan" di Giuseppe Lupo (Marsilio)
Le semplificazioni e le generalizzazioni costano poco e danno soddisfazione, tanto che di recente è diventato atteggiamento comune mettere a forza chi è nato negli anni 60 nella casella dei boomer. Ma la scansione temporale delle generazioni è cosa più sottile e complessa. Meglio citare, allora, il nuovo, sorprendente e bel romanzo di Giuseppe Lupo, che è nato nel 1963 e della propria generazione dice «ci siamo trovati in mezzo, da una parte i nostri padri che hanno costruito l’Italia – e li abbiamo ammirati nella loro forza di padri, spettatori di una vittoria – e dall’altra i nostri figli, un’altra soglia della vita, che abbiamo seguito con lo sguardo mentre prendevano il largo. È questo il posto che ci è toccato occupare nella scala del tempo, nella storia della nazione. Nulla di più, nulla di meno: le intercapedini, dove ci siamo nascosti per osservare gli altri vivere. E per proteggerci». Dunque una generazione intimidita, sottratta, schiacciata tra un passato tanto importante quanto ingombrante e un futuro, quello dei figli, devastato da incertezze e cambiamenti così radicali che, per chi è nato negli anni sessanta, son un continuo mal di cuore.
Di questa generazione, che inevitabilmente si strugge di nostalgia per il 900, parla Tabacco Clan, romanzo autenticamente corale. C’è, a dire il vero, un personaggio che dice io, ma non è il protagonista, anzi nel romanzo di protagonisti non ce ne sono proprio, il primo e unico attore è l’intero gruppo cui l’io narrante appartiene, appunto il Clan, e di cui lui, laureato in chimica, è testimone e portavoce sulla pagina. Il Clan si è formato agli inizi degli anni 80 in uno studentato milanese per universitari, un collegio-residenza gestito da religiosi in zona Città Studi, dove matricole di chimica, giurisprudenza, economia, ingegneria, studenti dunque in Statale, al Politecnico, alla Cattolica, in Bocconi, si erano trovate a condividere il loro tempo. Tempo che chi ha avuto la fortuna di viverlo – il tempo dello studente universitario fuorisede – ricorderà, come faranno gli ex-ragazzi del Clan, come il migliore della propria vita. Venire da lontano, dalla Sicilia, dal Lazio, dalla Puglia, o anche solo dal bresciano o dal piacentino, valeva, in quegli anni senza internet e cellulari, come traumatico distacco da un altrove sideralmente diverso dalla metropoli milanese, la Milano da bere degli anni 80: nascevano così, spontanee, solidarietà ed empatia, che sfociavano in amicizie indissolubili. Tanto che il Clan, agli inizi del 2020 (ed ecco perché «ex» prima di ragazzi) esiste ancora. I membri si tengono regolarmente in contatto con un gruppo whatsapp e quando possono, se l’occasione è davvero eccezionale, si riuniscono tutti di nuovo.
È quel che accade per le nozze dei figli di due di loro, il Cardinale e Piercamuno (ognuno nello studentato ricevette il proprio soprannome, rimasto per sempre in uso). Si celebrano a Stresa, sul Lago Maggiore, al Grand Hotel Verbano, spettacolare gioiello liberty, aperto fuori stagione, in gennaio, appositamente per il Clan. Ritrovarsi significa ravvivare una vicinanza mai dimenticata, ritrovare gerarchie, affinità, riti, e anche la voglia di sprigionare la stessa energia vitale, le stesse esplosioni d’affetto degli anni dello studentato. Succede poco al Grand Hotel Verbano: la cerimonia è per il giorno successivo, gli amici con le loro famiglie scendono all’hotel uno alla volta, mentre gli sposi (misteriosamente) tardano ad arrivare. Non ci sono climax di trama, e nemmeno di drama: nel meccanismo romanzesco scelto e perseguito con cura da Lupo, l’occasione, il ritrovarsi, serve essenzialmente a innescare il meccanismo del ricordo. Che senz’altro riporta alla luce episodi pittoreschi se non picareschi, gaffe, trionfi e incidenti dell’epoca universitaria, che conferiscono al romanzo un tocco di leggerezza, un tono cordiale e accogliente. Ma in realtà (e viene quasi in mente Gli anni di Ernaux) la giustapposizione senza particolare ordine o sottotrama dei ricordi lavora a formare un quadro variegato e allo stesso tempo accurato, che diventa il complesso ritratto della generazione di cui si diceva: i nati negli anni 60, quelli finiti nelle intercapedini, stravolti dalle crisi (della religione, delle ideologie, della cosa pubblica), una generazione che ha finito per disperdersi e spesso fallire, senza riuscire a realizzare qualcosa di memorabile per cui essere ricordata dalla storia, e nemmeno a dare una semplice, solida base per il futuro dei propri figli.
La sicurezza, il conforto, la solidità disponibili, sembra dirci Lupo, rimangono allora quelle dello stare insieme, del proseguire all’infinito il gioco dell’amicizia. Quasi si volesse costruire «quando fossimo arrivati ad avere mogli, figli, un’unica Arca di Noè per le famiglie del Clan».