Il Messaggero, 2 ottobre 2022
Intervista a Giorgio Panariello
Ha compiuto 62 anni venerdì scorso, lo stesso giorno è tornato in tv - come giurato di Tale e Quale Show, su Rai1, condotto dall’amico Carlo Conti - e il 26 ottobre da Firenze partirà in tournée con La favola mia, il suo nuovo spettacolo teatrale (sarà al Brancaccio di Roma il 15 e 16 novembre). Insomma, Giorgio Panariello - che nel 2012 su Canale 5 fece uno show chiamato Panariello non esiste - c’è sempre e lotta assieme a noi (si fa per dire).
Ha festeggiato?
«Poco. Avevo preparato un festone per i 60 anni, ma poi il Covid ha rovinato tutto. Ne organizzerò un altro per i 70».
Come se la passa?
«Si naviga a vista, non c’è più quella programmazione professionale di due-tre anni. Fra poco andrò nei teatri per raccontare episodi della mia vita. Vale anche come test per la tv».
Va in scena senza maschera?
«Sì. Prima del lockdown pensavo di fare un’autocelebrazione, poi mi sono fermato, come tutti, e scrivendo il libro su mio fratello Franco ho capito che volevo raccontare un po’ di me».
Quando tornerà di sabato in tv?
«Sto cercando di fare proprio quello. L’obiettivo è la tv. Era...».
Era?
«Adesso, dopo il voto, in Rai cambierà tutto e si dovrà ripartire da zero».
Altri progetti?
«Portare il lavoro fatto in teatro su una piattaforma. E poi ho scritto una sceneggiatura per un film che invece è piaciuta per una serie».
Di che si tratta?
«Si tenga forte: un fantasy. Non posso dire altro, però».
Due anni fa, invece, ha detto che quasi tutti gli errori fatti in carriera sono arrivati quando si è lasciato influenzare dalle critiche: si spieghi meglio.
«Non dovevo snaturarmi, cosa che a volte ho fatto. Portavo a casa ascolti pazzeschi, ma la critica mi massacrava? Io pensavo solo a quello: che cosa sto sbagliando
?».
Quando nel 2006 fece il Festival, uno dei meno visti di sempre con una media del 40 per cento di share, cercò di essere qualcun altro?
«No. Quell’anno nessuno voleva fare Sanremo: nel 2005 Paolo Bonolis era andato così bene che tutti temevano il confronto. Così i dirigenti della Rai vennero da me in ginocchio. Dissi di sì ponendo condizioni chiarissime: Ho appena finito il mio show e non ho più cartucce, quindi posso venire come conduttore che cerca di fare il Festival e un po’ lo disturba. Capii solo troppo tardi che così non si poteva fare. Le pressioni erano tantissime: Rai, ascolti, discografia, soldi, sponsor... Ero solo, nessuno mi aiutava. Mi ritrovai a guardare il soffitto chiedendomi: perché ho accettato? E non sapevo che c’era l’embargo dei cantanti, non me l’avevano detto...».
Alla fine, però, c’erano: Grignani, Britti, Oxa, Ron, Zarrillo...
«Sì, ma non avevo l’aiuto delle case discografiche. E in più c’era Maria De Filippi a controprogrammare».
Quel Festival è stato il grande inciampo della sua carriera?
«Certo. Ma ne ho fatti anche altri, più piccoli, meno clamorosi, e forse più significativi».
E cos’avrà fatto mai?
«Cambiare autori per cercare altre frecce per il mio arco».
Un classico per chi fa ridere.
«Già. I comici, che spesso vengono presi per artisti minori, hanno sempre voglia di dimostrare altro».
Sanremo lo rifarebbe?
«Sì, ma solo con la squadra giusta».
Con il cinema cosa non ha funzionato al contrario di altri suoi colleghi?
«C’è stato un momento in cui, grazie a Leonardo Pieraccioni, bastava essere toscano per fare un film. Io firmai con Cecchi Gori anche come regista, ma dirigere non fa per me. Il primo andò bene,
Bagno Maria del 1998, ma il secondo - Al momento giusto del 2000 - molto meno. E la colpa era mia. Quindi ora voglio solo prestare la mia faccia al cinema, pur non frequentandolo».
Che vuol dire?
«In questo mestiere bisogna farsi vedere, andare alle feste giuste, camminare sui red carpet... Io non lo so fare. E poi pago per il mio grande peccato: essere il comico di successo del sabato sera».
Qualcuno ancora oggi non glielo perdona?
«Sì, è così, anche se le cose un po’ stanno cambiando. Altri colleghi hanno strambato, io devo solo aspettare il film giusto per dimostrare che so recitare. Quelle poche volte che l’ho fatto è andata bene. Come nel 2016 con
Uno per tutti di Mimmo Calopresti».
Perché due anni fa ha scritto il libro Io sono mio fratello, dedicato a Franco, ex eroinomane morto nel 2011 a 50 anni?
«Dopo tanti anni ho scritto un monologo su di lui e sono venute fuori tante cose, a cominciare dal senso di colpa, che ho avuto per anni».
Perché?
«Sono nato un anno prima di lui e quando nostra madre ci ha abbandonato, io sono stato adottato, mentre lui è andato a finire in collegio. Mia nonna non poteva permettersi economicamente un altro bimbo in casa. Già aveva me e cinque figli suoi».
Si è mai chiesto che fine avrebbe fatto se fosse stato al suo posto?
«Forse la sua, chi lo sa? Io sono stato fortunato, lui sfortunatissimo. Comunque l’ho scritto anche per raccontare che alla fine ce l’aveva fatta: quando la notte di Santo Stefano del 2011 l’hanno lasciato in un’aiuola di Viareggio, Franco non è morto di overdose ma di ipotermia. Si era ripulito pur essendo un caso disperatissimo. Aveva vissuto per strada, da barbone, era stato arrestato...».
Lei, invece, ce l’ha fatta grazie a cosa o a chi?
«Al carattere. In quegli anni là, gli Anni 80, tantissimi ragazzi dalle nostre parti iniziarono a bucarsi e a farsi di cocaina».
Ci andò vicino?
«Vicinissimo. Solo il mio carattere ha fatto in modo che ne uscissi immediatamente e con paura. Ci sono momenti in cui tua occasione non arriva mai e tutto sembra insormontabile... Io poi, non sembra, ma sono timido e introverso, e ho faticato più di altri: il vero successo l’ho avuto a 40 anni».
E l’ha pagato in qualche modo?
«Forse non avendo una mia famiglia. Adesso sto bene con Claudia, la compagna che mi dà la vera serenità, e due cani. Figli non ne ho».
Adesso è troppo tardi?
«Mai dire mai. Carlo (Conti, ndr) è diventato papà nel 2014, Leonardo (Pieraccioni, ndr) nel 2010. In passato forse ero troppo egoista per affrontare questa responsabilità».
Mai capitato di ricevere una telefonata tipo: Ciao, ti ricordi di me? Mio figlio è anche tuo figlio...?
«No, però ho avuto paura che potesse accadere».
Ha mai saputo chi è suo padre?
«Purtroppo no. Ma credo che non sapesse di esserlo. Sono frutto di un’avventura di una notte».
Il meglio è già passato: ci pensa mai?
«Non vivo nel passato, quindi credo che il meglio debba ancora venire. Però a volte ci ho pensato, sarei uno stupido a negarlo. Momenti di panico li ho avuti anch’io».
Quando?
«Con il boom dei talent e dei reality in tv, forme di intrattenimento completamente diverse dalla mia. Pochi soldi e grandi ascolti, roba da brividi... Per fortuna so di avere il lavoro in teatro e un pubblico che mi segue. Quando sarà, morirò in scena come Molière».
A proposito, è uno di quelli che sta sempre dal medico, fa analisi ogni settimana e via dicendo?
«Per niente. Però ho un amico medico che ogni tanto mi spinge a fare controlli. Diciamo che non sono Carlo Verdone».