il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2022
Biografia di Giampiero Ingrassia raccontata da lui stesso
In alcuni gesti, movenze smorfie o toni della voce sembra di rivedere suo padre, ma a colori.
Mercoledì sono 100 anni dalla nascita di Ciccio Ingrassia, l’uomo che, insieme a Franco Franchi, ha “inguaiato il cinema italiano” (copyright di Ciprì e Maresco) grazie alle loro battute, i toni surreali, la mimica estrema, la capacità di leggere la realtà del Paese e renderla una maschera tragica o comica a seconda del desiderio di capire.
Giampiero Ingrassia è un figlio d’arte innamorato del padre; un amore ragionato, sobrio, non ostentato; nel salotto di casa in apparenza “Ciccio” non c’è, in realtà è ovunque: foto d’epoca piazzate di lato, la collezione (quasi) completa dei film, un paio di libri dedicati e alcuni oggetti che hanno accompagnato la storia di una famiglia.
Jocelyn ha raccontato al Fatto: “Ho imparato l’italiano con Franco e Ciccio”.
È vero e come lui pure il Papa: quando l’ho saputo non ci volevo credere.
Oltre alla bravura c’è molto materiale su di loro.
Hanno girato oltre 130 film, negli anni Sessanta stavano sempre sul set.
Ci andava?
Non tantissimo perché stavo a scuola; (sorride) però alcune giornate le ho cristallizzate nella memoria, soprattutto per Amarcord.
Con la scena di suo padre sull’albero che grida: “Voglio una donna!”.
È stato un vero culo: avevo 11 anni e papà mi propose di passare con lui la giornata: “Ti va? Giro con Fellini”; l’aspetto incredibile è che di quel giorno ricordo tutto, eppure non è stata né la prima né l’unica volta con mio padre; (pausa) quel giorno rappresenta un fotogramma nitido della mia esistenza.
Forse perché era importante.
Ricordo papà arrampicato sull’albero finto, poi la scena del calesse e il pranzo con Fellini e Pupella Maggio; (pausa) ero certo che quel giorno me lo sarei ricordato per tutta la vita.
Suo padre emozionato?
Sì, ed era molto attento; (sorride) in una scena doveva farsi la pipì addosso, io stavo dietro; a un certo punto Fellini inizia a urlargli: “Sgrullalo, sgrullalo!”. E papà: “Federico, ti prego, c’è mio figlio”. “Scusa”.
Da piccolo si rendeva conto della fama di suo padre?
Intuivo che non era una persona comune e ne ero un po’ geloso: privacy zero e negli anni Sessanta lui e Franco venivano trattati da Beatles.
Assediati.
Uscire con papà era impossibile… (squilla il cellulare, risponde: “Oddio che ansia; sì martedì debuttiamo con ‘Doctor Faust’ alla Sala Umberto di Roma… ti richiamo dopo”)
Ha l’ansia…
Mi prende sempre, ogni sera che vado in scena, con tanto di cuore che batte a ritmi folli.
E pensa “chi me l’ha fatto fare?”
Certo! E aggiungo: “Perché ho scelto questo mestiere?”; poi quando si apre il sipario cambia ogni prospettiva; (pausa) e pensare che sono andato in scena in ogni condizione.
Cioè?
Pure con un ascesso clamoroso: ho recitato di profilo; (ride) un’altra volta ero impegnato con Marina Massironi per Harry ti presento Sally, solo che prima dello spettacolo avevo mangiato un panino strano; iniziamo ed ecco le prime avvisaglie di nausea; esco di scena ed è stato un cataclisma. Sono rientrato sul palco cianotico e con la mentina in bocca.
Torniamo a suo padre: cosa le dicevano i compagni di scuola?
Mi dava un po’ fastidio, temevo che i ragazzi si avvicinassero solo per via del cognome; un giorno papà mi comunica: “Dobbiamo partecipare a un servizio fotografico: vengo a prenderti dentro scuola”. “No papà, ci vediamo fuori”. “Dentro”. Lo ricordo nel cortile con dietro il fotografo, quindi lo raggiungo e all’improvviso si palesa un compagno di classe, uno con il quale non avevo alcuna confidenza, che si accorge della situazione, si avvicina, mi stringe la mano e con un sorriso affettato guarda l’obiettivo.
Con suo padre si bloccava scuola.
Infatti veniva quasi solo mamma; (cambia tono) però mi piaceva l’affetto del pubblico nei suoi confronti, un po’ come con Proietti; con Gigi ho visto un autobus inchiodare davanti al teatro Brancaccio (nel centro di Roma, ndr); un bus pieno e l’autista che urlava: “Gigiiiiii”.
Idolatria pura.
Un tempo non c’erano vie di mezzo: o eri famoso o non lo eri.
Chi frequentava casa vostra?
Tantissimo Lino Banfi.
Banfi cita spesso suo padre.
Perché gli deve la carriera e tra di loro c’era una grande amicizia; (pausa) papà e Franco obbligavano la produzione cinematografica a ingaggiare una serie di caratteristi, volevano lavorare con lo stesso gruppo.
Modugno?
Nessun rapporto, Modugno non gli aveva perdonato l’addio alla sua compagnia; (pausa) papà e Franco erano riservati, il glamour non era per loro.
Fuori dal set si frequentavano?
Molto, ma con periodi di pausa. Un paio di volte hanno pure litigato, ma per papà è stata una piccola fortuna: da solo ha partecipato a progetti bellissimi come Amarcord o Todo modo.
Di suo padre cosa ama?
Tutti i film degli anni Sessanta; nei Settanta iniziavano a vacillare, però salvo Amarcord, Pinocchio, Kaos e Domani accadrà di Daniele Luchetti.
Nel 1964 Franco e Ciccio hanno girato 24 film.
Non sentivo la sua mancanza: in qualche modo c’era, con una telefonata o un biglietto e quasi sempre il set era a Roma.
Suo padre in versione casalinga.
Come dicevo, era riservato, tranquillo, amava le battute alla Monty Python; (sorride) tra di noi scattava un gioco sottile: non ci chiamavamo quasi mai per nome, magari gli dicevo: “Ciao James, come stai?” e rispondeva: “Johnny!”.
Quali “no” le ha detto?
Nessuno. Si è sempre fidato.
Sempre.
Già da piccolo; (ci pensa) non gli ho mai detto nulla, neanche quando sono andato da Proietti per il provino.
Come mai?
Temevo di non venir preso, quindi volevo evitare una figuraccia.
Proietti sapeva di suo padre?
Gigi ogni volta mi chiedeva di salutarlo; quando mi hanno accettato ho svelato tutto a papà, compresi i saluti di Gigi. E lui: “Che figure di merda mi fai fare!”.
Quando voi ex studenti parlate di Proietti trasmettete un amore totale.
Gigi ha rappresentato qualcosa di speciale: per lui provavamo amore e sudditanza; (cambia tono) quando frequentavamo il suo laboratorio, noi studenti, ogni sera, ci ritrovavamo dietro le quinte dello spettacolo per vederlo recitare. Tentavamo di rubare il possibile dei suoi segreti. Lo veneravamo.
Di nuovo suo padre: definiva Franchi “un selvaggio”.
(Ride) Lo ripeteva di continuo.
E lo pensava?
No, gli piaceva sfotterlo; Franco rispondeva: “Sei un morto che cammina”.
Si sentivano messi da parte dal cinema cosiddetto colto?
No, pensavano al pubblico; eppure i critici li hanno massacrati – ho ritrovato recensioni terribili –, gli stessi che anni dopo li hanno esaltati. Loro due già al tempo ripetevano: “Da morti verremo rivalutati”.
Delle sue origini umili parlava?
Sono anche andato a vedere dov’è nato, in uno dei quartieri più popolari di Palermo; mi ha raccontato di suo padre ciabattino, di lui che sapeva lavorare la tomaia, poi delle sue fughe per frequentare il bar degli artisti, delle difficoltà iniziali.
Povertà assoluta.
Anche per questo li amo; (pausa) io da quando sono nato ho le spalle coperte e ho potuto scegliere grazie a questa libertà. Loro no. Loro realmente si dipingevano le caviglie di nero perché non avevano i soldi per i calzini; loro realmente per anni hanno dormito insieme dentro a pensioncine infime.
Di quella fase quale aspetto gli era rimasto addosso?
In parte lo sublimava con la generosità: a Palermo ha comprato casa a nonna e zii; sul set, con una scusa, rinunciava al cestino e lo regalava alle comparse: per loro era l’unico pasto vero della giornata; lo so perché me lo hanno raccontato le comparse e se il cestino non bastava con una scusa gli allungava dei soldi.
Franco Bracardi al Fatto ha ricordato un set particolare con Franco e Ciccio…
Crema, cioccolata… e paprika? (Cambia tono) È una pellicola con alcune controversie legate alla mafia: era prodotto dalla famiglia Greco…
Proprio quello.
Ma a Franchi piaceva andare alle feste, ai matrimoni: quel clima particolare lo spiega bene Nino D’Angelo nel film di Ciprì e Maresco (Come inguaiammo il cinema italiano – La vera storia di Franco e Ciccio): “Se mi invitano che chiedo la fedina penale di chi paga e mi coinvolge? E poi posso dire di no?”.
Suo padre come reagiva?
Consigliava a Franco di non farsi vedere, di lasciar perdere. Ma in pubblico lo difendeva.
Suo padre a un certo punto ha detto basta con lo spettacolo.
Scelta sua.
Maturata, come?
L’ultimo lavoro in coppia è stato Avanspettacolo su Rai3 (1992); Franchi dopo poche settimane venne ricoverato per poi presentarsi all’ultima puntata. Stava male. E dopo la sua morte papà disse: “Non mi va più”.
Da lì…
Forse ha partecipato a uno o due lavori e solo perché lo hanno pregato; (ci pensa) un giorno mi squilla il telefono, rispondo ed era Antonio Albanese. Io felicissimo, pensavo fosse per me. “Mi devi fare una grande cortesia: ho un ruolo per tuo padre, convincilo”. Inutile. Papà aveva una sorta di orgoglio siciliano.
Quindi la morte di Franchi è stata decisiva.
Una bella botta e improvvisa: il giorno prima della morte andammo a trovarlo in clinica; ho l’immagine di Franco sul letto, con la porta aperta, noi che lo salutiamo da lontano e papà che entra. Si sono parlati, nessuno di noi ha ascoltato e neanche chiesto cosa si fossero detti. Sembrava un momento sacro; (cambia tono) dopo la morte i figli di Franco lo chiamavano: “Ciccio ti veniamo a trovare”. “Per favore no, mi ricordate troppo vostro padre e non ci sto bene”.
Invecchiando in cosa assomiglia a suo padre?
In alcune foto di scena mi riguardo e penso: “Cacchio, sembro lui”, soprattutto per la gestualità e la camminata. Eppure ho preso più da mia madre.
Le piace assomigliargli.
Tantissimo; non ho mai sofferto i paragoni, ho sempre pensato che il nostro cognome fosse una ditta che va avanti e ora mia figlia sta studiando a Bologna per diventare performer di musical.
Suo padre l’ha mai scoraggiata?
Non mi ha mai incoraggiato, che è diverso. Quando veniva ai miei spettacoli mi assestava una pacca sulla spalla e regalava un “bravo”. Io sapevo che quella pacca e quel bravo significavano “sono orgoglioso di te”.
Bravo lei a decifrare.
Anche grazie a mamma; (pausa) noi siamo stati una famiglia classica, non rockstar da sesso, droga e rock; (ci pensa) droga zero, mentre il sesso e il rock venivano messi da parte rispetto agli affetti.
Tradotto?
Mio padre in cinquant’anni di matrimonio qualcosa se la sarà concessa, però non si è mai saputo nulla. Mamma controllava; (sorride) la rivedo mentre trova un capello di donna sulla sua giacca e gliene chiede conto.
Lo vedeva anziano?
A 80 anni aveva ancora i capelli neri; si tingeva solo i baffi; solo gli ultimi due anni di vita non è più uscito di casa perché si vergognava della sua condizione.
Vede i suoi film?
Qualcuno sì, mi fa piacere.
Si commuove.
Quando è morto è stato il mio primo grande dolore: gli ho chiuso gli occhi e poco prima dell’addio mi aveva chiamato “piccinino” e invitato a non preoccuparmi; (pausa) poi appena morto, vado a respirare sul balconcino dell’ospedale; lì si avvicina una donna e in qualche modo mi ha sollevato: “Guarda che bella giornata: se n’è andato con il sole”. Aveva ragione.