La Stampa, 2 ottobre 2022
Intervista a Giovanni Storti
Un uomo di parole scarne, abituato a dire molto senza dire troppo, con lo sguardo divertito e un’aria serafica da cui ci si può aspettare di tutto. Del trio amatissimo, Giovanni Storti ha sempre rappresentato l’ala surreale e malinconica, quella pronta a volare alto sulla realtà, ma anche a coglierne le numerose incongruenze. Prima in coppia con Aldo Baglio, conosciuto nell’oratorio di Sant’Andrea, a Milano, e poi dal’ 91, nel terzetto con Giacomo Poretti, Giovanni ha ritratto personaggi sempre vagamente riflessivi, come se non riuscissero a capacitarsi dell’assurdità dell’esistenza. Adesso, da solo, Storti segue le sue inclinazioni, drammatiche, come nell’opera prima di Andrea Brusa e Marco Scotuzza Le voci sole, o dichiaratamente comiche, come in Tutti a bordo, commedia di Luca Miniero (nelle sale), ispirata al film di Benjiamin Euvrard Attention au depart. Quando non recita o non scrive libri, si dedica al trial, la sua passione, che lo ha portato a correre ovunque nel mondo, in pianura, nel deserto, in montagna. Stavolta sullo schermo è Claudio, corre a bordo di un treno, oppure inseguendolo, insieme al figlio Bruno (Stefano Fresi), sulle tracce del nipote Juri (Leone Girlanda): «Ho due figlie di 31 e 35 anni, nessun nipote, mi piacerebbe averne».
Claudio è un nonno giovanile e inaffidabile, niente a che vedere con i nonni di un tempo. Perché, secondo lei, oggi si fa così fatica a invecchiare?
«Prima di tutto la vita si è allungata, si sta in salute molto più a lungo rispetto all’epoca dei nostri padri e quindi ci si sente più in forze. Poi c’è il mito del restare sempre giovani, la vecchiaia è vista come una sfiga, un disastro, una roba da evitare a tutti i costi, e quindi è una caratteristica che tende a saltar fuori il più tardi possibile».
Lei come vive il passare del tempo?
«Non mi sembra di fare troppo il giovane, ma ho fatto sempre sport, corro, mi tengo in forma, riesco a fare più o meno quello che facevo in passato. Il mio metro di giudizio è stare bene, non solo in salute, anche rispetto agli amici, alle cose che scelgo di fare. Finché ci riesco, va bene così».
Il film mostra che gli imprevisti possono avere conseguenze positive. È d’accordo?
«Abbiamo tentato in ogni modo di eliminare gli imprevisti dalle nostre esistenze e invece secondo me gli imprevisti sono il sale della vita, ti fanno ragionare, inventare, cambiare, e poi dalla cooperazione con gli altri vengono sempre fuori cose interessanti. Io, Aldo e Giacomo ne siamo la prova».
Il film descrive genitori poco all’altezza del loro ruolo. Tipologia molto diffusa, come mai?
«I genitori del film sono opportunisti clamorosi, succede spesso di incontrarne anche nella realtà, non so perché. Io non penso di essere stato un padre così, non ho viziato i miei figli più di tanto, anche se sono stato molto in giro e un po’ di tempo gliel’ho levato».
In questa fase ha fatto esperienze in solitaria, senza il trio. Perché?
«Ho ricevuto delle proposte e sono stato contento di poter collaborare con altre persone, non su testi scritti da me, di cui sai già che funzioneranno, ma confrontandomi con cose completamente diverse, vivendo opportunità che a una certa età è giusto sfruttare».
Da solo ha dato sfogo alla sua vena drammatica. Si sente meglio quando fa ridere o quando fa piangere?
«Mi piacerebbe poter usare più spesso proprio quella corda, mi sento un guitto drammatico, nella vita reale avverto molto il pessimismo, ma so anche guardare il lato comico della tragedia».
In Italia abbiamo appena votato, c’è chi festeggia e c’è chi soffre. Come si affrontano queste tensioni?
«Non dobbiamo cadere mai nell’indifferenza e nel menefreghismo, se restiamo chiusi in noi stessi non capiremo nulla di quello che ci circonda, dobbiamo usare l’ironia e soprattutto credere nella partecipazione e nella collaborazione, non scegliere mai la strada del lasciar correre».
Ha parlato con il Trio dopo il risultato elettorale?
«Ci eravamo consultati prima del voto, chiedendoci “tu che cosa voterai questa volta?”, sentendoci tutti e tre molto in difficoltà. C’è questa vignetta bellissima: “attenzione a dove mettete la croce, perché poi bisogna portarla”. Il problema è che adesso la croce dobbiamo portarla anche noi, che abbiamo fatto scelte diverse…. Ho l’impressione che la democrazia si stia un po’ deteriorando».
Stiamo anche provando a venir fuori dal trauma della pandemia. Lei come l’ha vissuta?
«Il primo lockdown l’ho vissuto bene, ero in campagna, ci sono rimasto, c’è stata una primavera bellissima e, stando nei campi, non ho avvertito il peso di tutti i vincoli imposti a chi era in città. Poi, naturalmente, è diventato tutto molto più duro».
Il Covid ci ha insegnato qualcosa?
«Avrebbe dovuto farlo, e invece l’insegnamento è stato completamente perso, avremmo dovuto capire l’importanza della parsimonia, del rispetto della natura e delle risorse. Forse la cosa peggiore della pandemia è stata proprio questa, tornare, dopo quello che abbiamo vissuto, a praticare il massimo sfruttamento di tutto, ancora più accaniti, in tutti i campi».
Cosa la consola nei momenti neri?
«La mia campagna, piantare gli alberi, guardarli crescere, e poi vedere le mie figlie che fanno quello che desiderano senza eccessi, senza prevaricazioni. Una fa circo contemporaneo, è cordista, l’altra lavora nell’organizzazione, dove serve sempre un po’ di fantasia».
A Natale uscirà il nuovo film del Trio, ancora una volta tutti insieme. Di che si tratta?
«È una commedia molto comica, con un’idea di fondo interessante e cioè che, spesso, quando sembra che le cose siano chiuse, finite, in realtà stanno iniziando di nuovo. Parlo del film eh, non vorrei collegarmi all’attualità...».
Vi siete separati per un po’, e poi riuniti. Che cosa significa per voi tornare insieme?
«Siamo molto affiatati, ci capiamo al volo, ci divertiamo tanto, qualsiasi cosa facciamo, perderci sarebbe un peccato. Anche se ognuno di noi fa anche cose diverse, a un certo punto sentiamo sempre il bisogno di ritrovare quella chimica che abbiamo solo quando siamo insieme». —