La Stampa, 2 ottobre 2022
Le città in un libro
L’intervento di Carlo Piano al Welchome to my house, il festival dell’architettura
Per far finire tutte le città dentro un libro, ho dovuto prendere una barca e costringere mio padre per un po’ di settimane a non lavorare e a tirare fuori dai cassetti della memoria il suo lungo viaggio intorno al mondo. Un viaggio che ricorda certamente quello di Ulisse, basato sull’ingegno, proteso a costruire il meglio, affascinato dai singoli luoghi e dalle singole narrazioni; al contempo, sempre confrontato con le proprie radici, con la propria casa. Un viaggio alla ricerca di Atlantide, la città perduta, le città ideale proprio perché perduta e mitica; un viaggio che si è concluso ad Itaca in nome di quell’antico aedo cieco che aveva dato a quell’isola il compito di rappresentare tutti i ritorni possibili, “nostoi”, approdi di intelligenza e di tecnica, luogo dove il potere si confronta con la passione, e dove i cittadini attendono il buon re e il suo ritorno per dare vita a nuove stirpi di lunga durata.Non potevamo che ricostruire il continuo peregrinare dell’architetto – professione che mio padre ha intrapreso anche perché qualcuno gli impedito di fare il musicista, in quella Genova in cui tutti mettevano il mondo in musica – proprio in barca, dove il tempo è sospeso, c’è silenzio, si è quasi in modalità pausa, cullati dalla dolcezza delle onde – non sempre, a dire il vero.
Ma il diktat a mio padre – costringerlo dopo oltre 50 anni di professione a fare il punto, a riflettere su cosa aveva funzionato e cosa no, sulle sfide con cui si era avviato alla professione e il paragone con le attuali – era anche una piccola e solenne vendetta: per quanti anni, per quante estati, quando i nostri ormoni avrebbero avuto bisogno di terraferma e di notti in giro con gli amici, nostro padre aveva costretto tutta la famiglia a stare in mare, a dormire in rada, a fare pochi rifornimenti e a comprendere che il mondo lo si capisce solo stando in barca? Ribaltando la famosa metafora di Lucrezio, che riteneva suprema dolcezza guardare dalla terra lo scoppio della tempesta in mare, noi siamo stati educati a comprendere la società osservandola dal mare.
Come doveva essere apparsa dal mare Genova negli anni Sessanta? Forse davvero troppo lenta, se sentì il bisogno di studiare le grandi metropoli, Londra, New York, Parigi. Ero appena nato quando tenne una lezione all’Olympia Hall; ci era arrivato insieme a mia madre su una vecchia e sgangherata 1100 Fiat. Venne accolto da Richard Rogers, con cui decise – due anni dopo – di partecipare al concorso per ridisegnare il Beaubourg. Erano gli anni successivi al Sessantotto, e quell’edificio ne trasmette molti significati ed esigenze: la trasparenza, l’accessibilità, il dialogo tra il passato e il futuro, la necessità di costruire uno spazio per tutti dove finalmente i libri potevano essere presi direttamente, senza intermediazioni, e lasciati sui tavoli di consultazione, dove qualche altro avventore, curioso o studioso che fosse, poteva a sua volta entrare in una narrazione da qualche minuto appena lasciata aperta, compiuta o incompiuta, dal dialogo tra l’autore e il lettore.
Sono gli stessi anni delle Città invisibili di Italo Calvino, capolavoro pubblicato nel 1972, 50 anni fa esatti. Italo seguiva i lavori della costruzione, ne dialogava con Renzo; su uno dei suoi mitici taccuini disegnò addirittura una “macchina per lavare” l’edificio, che con tutte quelle superfici in vetro, e quei pezzi che lo compongono, blu e rossi e gialli, sembrava necessitare davvero uno strumento innovativo per renderlo sempre perfetto e adamantino, rilucente come solo può essere uno spazio architettonico negli inverni della capitale francese. Chissà se quel disegno sia rintracciabile, sarebbe un compagno di viaggio necessario nella ri-costruzione di Atlantide, fatta di acqua ancor più che di pietre e di marmi.
Tra le tante biblioteche costruite dal Renzo Piano Building Workshop, luoghi che ribaltano la trasformazione di città in libri, e che fanno dei libri la componente essenziale della vita urbana, una fra le altre nasce dal dialogo con uno scrittore: la Morgan Library di New York, nata nel 1906 su progetto di McKim, Mead & White e ampliata su tre livelli tra il 2000 e il 2006, in tempo per festeggiarne il primo secolo di vita. Renzo ne discusse a lungo con Umberto Eco; in modo totalmente diverso dagli sforzi di dare partecipazione che contraddistinguono il Beaubourg, la nuova biblioteca deve pensare a un futuro molto lontano nel tempo, in cui i tesori che contiene si sono da un lato moltiplicati e dall’altro smaterializzati. È un pensiero costante per chi abita Atlantide: chi ci lavora spesso non avrà modo di vedere quanti e quali risultati darà il suo apporto a costruire bellezza.
Ma se ogni città è un approdo, e se ogni libro è anche la storia di un uomo, e il suo abitare è il legame con gli altri, niente rappresenta meglio questo sforzo di bellezza se non realizzare un ponte. Un ponte simbolo, che cerca di lenire un dramma e riunire una città con il resto di una nazione. Ecco perché ho sentito il bisogno di raccontare il cantiere del Ponte San Giorgio, realizzato a tempo di record dopo la tragedia del Ponte Morandi. Per raccontare le storie di quei mille che ci hanno lavorato. Mille persone da tutta Italia, da tutto il mondo; tanti di Bergamo, come tanti di Bergamo furono nei mille che da Quarto partirono per Marsala agli ordini di Garibaldi. Quando, il 4 agosto del 2020, la città è stata ricucita con il ponte, mi sono tornate alla mente la parole di un altro grande scrittore, Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura nel 2010. Vistando il cantiere di Potsdamer Platz, diceva a mio padre che l’opera della moltitudine diviene comunità solo se sa parlare più lingue. Ecco, Atlantide e il suo ponte hanno bisogno di lingue diverse, e anche di orecchie nuove per ascoltarne le storie a venire. —