La Stampa, 2 ottobre 2022
Molly s’ammazzò per colpa di Instagram
I social sono colpevoli del suicidio di una ragazzina britannica. A queste conclusioni è giunta l’inchiesta, presentata ieri alla Corte dal coroner inglese Andrew Walker, che ha approfondito le circostanze del suicidio di Molly Russel, la quattordicenne che si tolse la vita nel 2017 nella casa della sua famiglia ad Harrow, quartiere a nord-ovest di Londra.
Secondo l’analisi di Walker, il cui ruolo nel sistema giuridico inglese corrisponde approssimativamente a quello di un medico legale, la morte di Molly sarebbe stata determinata da un atto di autolesionismo estremo, scaturito in uno stato depressivo che l’avrebbe resa particolarmente vulnerabile, sicuramente però il suo precario stato di salute mentale sarebbe stato esasperato, fino a condurla a uccidersi, in grande parte per l’esposizione a contenuti particolarmente espliciti, che trattavano appunto di suicidio, depressione e autolesionismo.
In estrema sintesi la sentenza esprime per la prima volta il concetto che i contenuti incontrollati di piattaforme social come Instagram o Pinterest possono essere considerati come cause scatenanti del suicidio di una persona minorenne. A tutti gli effetti Molly Russel prima di uccidersi si era avventurata attraverso una moltitudine incredibile di post, che trattavano delle patologie di cui lei soffriva. Solo negli ultimi sei mesi di vita, prima di uccidersi, avrebbe interagito o condiviso, solo su Instagram, 2.100 post a tema autolesionismo, suicidio, depressione. Nei giorni che hanno composto questi sei mesi di autosuggestione sui temi della sua sofferenza, sono soltanto dodici quelli in cui la sua navigazione non è stata attratta dagli argomenti che l’avrebbero indotta a uccidersi.
La sentenza ha chiaramente trovato d’accordo l’ente di tutela dei minori in Inghilterra. La Children’s Commissioner Rachel de Souza ha richiesto alle piattaforme citate nella sentenza di attivarsi per cambiare «dal punto di vista etico». Il padre di Molly, Ian Russell, ha descritto la discesa della figlia in un mondo infernale, in cui una volta caduti dentro non è possibile sfuggire, perché l’algoritmo, continua a consigliare sempre più contenuti coerenti alle proprie curiosità. Il caso ha suscitato un tale clamore che persino William, il Principe di Galles. ha detto la sua in un comunicato, che in realtà ribadisce un concetto di quelli che è scontato condividere: «La sicurezza online per i nostri bambini e giovani deve essere un prerequisito, non un aspetto secondario». Una dichiarazione “d’ufficio” che, oltre a confermare un principio sacrosanto, non tiene conto della realtà che muove l’intero universo dei social network, che potrebbe essere sintetizzato in una cruda ma realistica massima: «Più ti tengo collegato a me più tu mi fai guadagnare. Per questa ragione, più alimento il tuo interesse con quello che mi fai capire tu voglia vedere, meno ti verrà voglia di staccarti da me».
Su questo e solo su questo è articolato uno dei più colossali business della storia, per cui in cambio di una connessione all’immenso paese dei balocchi, l’intera umanità ha volontariamente svenduto la propria vita privata, ha accettato di barattare ogni più riposto segreto della propria attività relazionale, dei propri gusti delle proprie debolezze, di ogni più inconfessabile turbamento interiore.
Per Molly il rovello era l’angoscia di vivere, provocata da parassiti tossici che scavavano gallerie nel suo cervello. Il social network ha alimentato questi parassiti fino a farli diventare così forti da uccidere.
Ha sicuramente ragione il coroner Andrew Walker, quando scrive nella sentenza che le immagini di autolesionismo e suicidio che Molly ha visto «non avrebbero dovuto essere a disposizione di un bambino», provando come gli algoritmi di Instagram e Pinterest abbiano portato la ragazzina a quell’effetto indigestione detto “binge watching” (abbuffata) di situazioni in cui gli atti autodistruttivi entravano in una narrazione quasi romanzata, al cui apice il suicidio veniva esposto come un esito ineluttabile.
La parte in causa, ossia i rappresentanti di Pinterest e Instagram, hanno seguito le udienze e hanno ammesso che, nella fruizione da parte di Molly dei materiali “tossici” alla sua salute mentale, delle irregolarità rispetto le loro policy sicuramente ci saranno state. Se non altro il fatto che Molly fosse iscritta a Instagram da quando aveva 12 anni. Non avrebbe potuto prima dei 13. Naturalmente si adopereranno, opereranno, provvederanno.
Cambierà qualcosa? No stiamone certi, nulla cambierà. Il grande gioco che addestra gli umani all’esistere digitale piangerà per un po’ una nuova vittima. Però non per questo potrà (o vorrà) fermarsi.
La capacità dell’addestrare a gestire il gioco da parte degli umani meno attrezzati potrebbe certamente diventare una didattica obbligatoria. Qui però dovrebbe entrare in gioco la maturità culturale, che non si stimola certo con le sentenze. —