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 2022  ottobre 02 Domenica calendario

Intervista a Gianni Togni

E guardo il mondo da un oblò...
«A vent’anni andai via di casa. Il papà della mia ragazza, conosciuta al liceo, si era separato e voleva stare con la nuova fiamma. Poiché la figlia da sola non poteva rimanere, decise che dovevamo convivere nel suo appartamento di piazza Bologna, a Roma. Il primo verso di Luna mi riporta a quel periodo, eravamo giovani, liberi e squattrinati. Mia madre non mi parlò per mesi».
Il suo primo successo è nato lì?
«Sì, in parte. Avevo un giorno per cantare l’intero album, a Milano. Non ci credeva nessuno. Passai una nottataccia prima di entrare in studio, ero nervoso. Uscii dall’albergo, poco prima dell’alba, con le stelle ancora in cielo. E la canzone che si doveva chiamare Anna si trasformò in una dichiarazione d’intenti alla luna».
Gianni Togni, 66 anni, è un cantautore prestato al successo (negli anni Ottanta e Novanta non solo in Italia) con canzoni come Semplice, Giulia, Per noi innamorati e Luna. Ha abbandonato la frenesia del pop commerciale per percorrere strade artistiche più impervie. Dopo più di 14 anni ha vinto la sua ritrosia e la scorsa primavera è tornato a salire sul palco per un affollatissimo mini-tour dal quale è stato registrato il suo primo album live. «Sono schivo, non amo la mondanità e vado poco in tv, la vita della popstar non fa per me. Non metto in piazza i sentimenti sui social. Negli ultimi anni ho perso parecchie persone care, per pudore sono stato zitto».
Era molto legato a Fabrizio Frizzi.
«Lo conobbi che non si era nemmeno affacciato in tv. Stava in radio. La sera invitavamo a cena gli amici. In terrazza avevamo un tavolo da ping pong. Agguerritissimi, organizzavamo tornei, con un fitto calendario di incontri. Il mio nome di battaglia era Smithson, Fabrizio si faceva chiamare Rogers».
È anche amico di Rita Dalla Chiesa?
«Lo sono diventato dopo la fine del suo matrimonio con Frizzi. Era rimasta sola a ristrutturare quello che avrebbe dovuto essere il loro appartamento. Fabrizio mi chiese di aiutarla. Io: “Mica sono un architetto”. Mi convinse. Così mi trovai in mezzo a muratori e calcinacci. Fu divertente però, con Rita non ci siamo più persi di vista, anche se politicamente abbiamo idee diverse».
A 18 anni si era iscritto all’università?
«Facoltà di Lettere, alla Sapienza. La mia fidanzata dava lezioni di ginnastica e poi trovò un posto in banca. Io frequentavo i corsi e le passavo gli appunti. Presi in affitto un pianoforte verticale e quando non studiavo componevo canzoni con Guido Morra. Ma avevo un piano B: insegnare, diventare giornalista o scrittore. Il successo mi ha impedito di laurearmi, nonostante i voti alti. Avrei fatto felice mio padre».
Che famiglia era la sua?
«Atipica. Mamma Marianna, detta Anna, era un personaggio particolare, una bellissima donna. Veniva da una famiglia abruzzese la cui ricchezza si è dissolta negli anni. Papà Franco era figlio di un capostazione, studiava ingegneria, ma, per non farlo partire in guerra, mio nonno gli trovò un posto nelle Ferrovie dello Stato».
Personalità opposte.
«Lui era un gran lavoratore, molto impegnato; lei affabile, generosa ma possessiva e un po’ snob. Quando mio padre le diede il primo stipendio, mamma lo spese in un giorno».
Un episodio della sua adolescenza?
«Un rumore più che altro. Papà, che diventò un dirigente, a casa c’era poco, ma doveva avere un telefono collegato con le stazioni di tutta Italia, così ci trasferimmo in un appartamento sopra la Tiburtina. Dalla mia stanza sentivo lo sferragliare dei treni. Con il tempo li riuscivo a distinguere: merci, accelerato, espresso. Mi hanno aiutato a scrivere con ritmi diversi le canzoni».
In casa giravano parecchi artisti.
«Mia nonna paterna suonava il piano e cantava lirica per passione. Zia Edda, sorella di mio padre, era scultrice e pittrice. Avevo uno zio avvocato e pianista jazz, viveva a Lanciano, suonava da dio. E poi c’è mio fratello Pierlorenzo, cinque anni più grande di me. Un bel rockettaro che è diventato un fotografo musicale. Gli rubai la mia prima chitarra».
Fratelli-coltelli?
«No, siamo legatissimi. Però i miei gliene avevano regalata una che lui aveva abbandonato in giro per casa. E io ne approfittai».
Imparò da solo a suonare?
«Per forza. Anche perché quando mi iscrissero a lezioni di pianoforte fui cacciato. A mia madre dissero che ero indisciplinato, perché appena imparavo un accordo mi lanciavo a comporre e non seguivo più l’insegnante. Andò meglio con la scuola di canto, ad Ancona, dove abbiamo abitato per un anno. A volte lisciavo il corso perché mi perdevo nella nebbia. Avevo 8 anni. Ma cominciai molto prima, cantando Morandi, Fatti mandare dalla mamma, e sui dischi di Little Tony. Mi avevano pure preso per lo Zecchino d’Oro. Non andai perché uno zio si ammalò».
Ha cominciato giovanissimo.
«A 16 anni, la domenica pomeriggio, cantavo al Folkstudio giovani. Dovevo portare una canzone nuova ogni settimana. Salivo sulla pedana con la chitarra e appoggiavo il testo su una botte, perché non c’era tempo di impararlo a memoria. Molti di quei brani finirono nel primo disco. Mio padre firmò la giustificazione per farmi saltare un mese di liceo e lasciarmi incidere per la It In una simile circostanza. Andò malissimo».
Non era che l’inizio.
«In quegli anni Rino Gaetano, della stessa casa discografica, era un po’ il mio supervisore. Abitavamo vicini, lui sulla Nomentana e io alla stazione Tiburtina. Mio fratello lo aveva fotografato per la copertina del suo primo disco. Avevo 18 anni. Quando si facevano le interviste o c’erano delle feste alle quali non potevo mancare, Rino mi passava a prendere, mi suggeriva con chi parlare, mi offriva una Coca Cola».
Ha aperto i concerti di Amanda Lear.
«Ad Albenga la sbirciai mentre riposava nel giardino dell’hotel, su una sdraio, circondata da boys, musicisti, amici in adorazione. Rideva. Era una signora allegra e una superdiva».
E quelli dei Pooh.
«Dovevo stare tre giorni, sono rimasto tre anni; siamo stati pure in tour negli Stati Uniti. Viaggiavo con loro in macchina. Guidavano o Red o Dodi. Dietro sedevamo io, l’ultimo a destra, in mezzo Roby e a sinistra Stefano, un maniaco della perfezione, da cui ho appreso molto. Pretendeva che, alla fine dei concerti, la scritta Pooh si alzasse in scena, perfettamente orizzontale. Era compito di una coppia di tecnici che dovevano girare due manovelle in sincro. Io, dalla platea, dovevo controllare che l’operazione venisse eseguita con precisione chirurgica. Gli dicevo sempre che tutto era filato liscio. Mentivo per non farlo arrabbiare. Ogni tanto il nome veniva su sbilenco».
Mai avuto imprevisti?
«Sì tanti, ma quello che ricordo ancora oggi, ridendo, è quando intrapresi un lungo tour di interviste nelle radio libere. Il primo della musica italiana. A volte bisognava raggiungere posti immersi nel nulla. Un giorno arrivammo con un’ora di ritardo perché la macchina rimase bloccata in mezzo a un branco di pecore».
A Sanremo non è mai andato. Perché?
«Le gare nell’arte sono ridicole, non è uno sport. Un anno la casa discografica mi costrinse a presentare una canzone. Inviai a Pippo Baudo Stanotte tienimi con te. La scartò, per fortuna. Lo bacio ancora quando lo vedo».
Jovanotti ha inciso Luna e l’ha voluta sul palco del suo beach party. Com’è andata?
«Semplice, non mi ha avvertito. L’ho saputo da un mio amico e io non gli ho nemmeno creduto. Qualche giorno dopo mi arriva un messaggio da Lorenzo: mi aveva nascosto tutto perché temeva il mio giudizio».
Invece?
«Invece è stato bravo, ha una grande umiltà e umanità. L’ha riletta senza stravolgerla. Poi mi ha invitato a cantarla con lui, davanti a quarantamila persone. Abbiamo provato in spiaggia, il pomeriggio. La sera dritti sul palco. Era un po’ di anni che non cantavo live, però quando entro in scena non mi rendo conto di niente».
Con il regista Patroni Griffi qualche scaramuccia c’è stata.
«Quando arrivavo durante le prove del musical Hollywood, ritratto di un divo, si scaldava: “È arrivato il diavolo”, perché gli rubavo gli attori per portarli in studio di registrazione».
Dopo il successo di «Hollywood» anche Lucio Dalla le chiese un parere.
«A cena, dopo la prima del suo musical su Tosca, Lucio si mise di fronte a me e volle un giudizio. Io, imbarazzato, risposi che il primo quarto d’ora era strabiliante, poi si perdeva. Mi fulminò: “Ovvio, non amo i musical”».
Quando non canta?
«Leggo, ascolto la nuova musica indipendente, vado a teatro, viaggio con la mia compagna Maria Romana. Sono un collezionista di vinili, ne ho più di tremila. Il primo che ho acquistato è dei Rokes, ce l’ho ancora. Mi è costato 1.700 lire più Ige, non c’era l’Iva».
È vero che con De Gregori vi incontravate a comprare dischi?
«A Roma si andava da Consorti perché ascoltavi gli album in una cabina. Quando usciva il nuovo lavoro di Dylan, Francesco era lì. A volte si ponevano scelte terribili. Ricordo l’indecisione davanti al primo lp solista di Paul McCartney e a Let it be. Vinsero i Beatles».
È anche uno sportivo?
«Da ragazzino ho conosciuto Lorenzo, il figlio di Oscar Mammì. Con lui giocavo a hockey su prato. Poi più niente per parecchio tempo. A trent’anni ho scoperto la passione il tennis. Quando stavo migliorando ho dovuto smettere per un problema alla retina di un occhio: non vedevo arrivare la pallina».
La lezione più importante?
«Quella di papà: qualcuno è più bravo di te? Studialo. Non invidiarlo, metteresti in evidenza la tua mediocrità».