Corriere della Sera, 2 ottobre 2022
Detenuti in cerca di lavoro
L a città dei reclusi è un labirinto a quattro blocchi, davanti a un lungo viale d’asfalto, una sbarra per le auto e il gabbiotto che segna la fine del mondo libero. Da una parte Rebibbia, il quartiere che Zerocalcare ha sganciato dall’immaginario carcerario, dall’altra il luogo di punizione o di «espiazione», come se dentro ci fossero peccatori e non criminali o magari innocenti in attesa che la giustizia muova i suoi pesanti ingranaggi. Arriviamo al Nuovo complesso, una palazzina grigia dai muri scrostati, un martedì mattina, in taxi, senza aver commesso reati. Sono insieme a un gruppo di chef e proprietari di ristoranti. Lasciamo cellulare e dubbi all’ingresso, in cassette di sicurezza di cemento.
«Seconda chance»
Due ore dopo esco da solo, scortato da un agente dal basco azzurro. Un uomo di mezz’età, che non ha gli occhi mobili e guizzanti di certi ragazzetti freschi di cella che abbiamo incontrato qui, occhi che rimbalzano sui muri della stanza senza trovare pace. Non ha neanche l’espressione vuota di altri reclusi, fissa su un punto immaginario. L’uomo in divisa non mostra particolari emozioni. Ne ha viste troppe, probabilmente, o non prova nulla. Ma probabilmente è solo la rassegnazione di chi ha vissuto buona parte della sua vita là dentro. «Sono rinchiuso qui da 20 anni. Quasi un ergastolo». Sia pure dalla parte dei «buoni».
Tra i «buoni», ma con sensibilità e idee completamente diverse, c’è un’ispettrice (lei dice «ispettore»), che è l’incarnazione della Costituzione, la migliore depositaria del verbo dell’articolo 27, quello che recita solennemente che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Cinzia Silvano è sui 40 anni, capelli nerissimi raccolti in un codino, modi spicci e sbrigativi avvolti da una patina di ironia. Ci accoglie in uno stanzino dove c’è un ritratto di Eva Kant, identico a lei, un regalo dei detenuti. C’è anche Flavia Filippi, che di lavoro fa la cronista di giudiziaria a La7, ma che da qualche mese offre tempo, anima e corpo a un progetto che ha chiamato «Seconda chance».
Chi non merita una seconda chance? I detenuti, per esempio. Sbagli, ti acchiappano, finisci dentro. Giustizia è fatta. La società si deve proteggere dal pericolo. La pena è retribuzione, è catarsi: hai fatto del male, devi essere sanzionato. Solo la punizione ristabilisce l’ordine morale, rammenda il tessuto strappato della società. La pena è anche deterrenza: impedisco a te di fare altro male e do l’esempio. Ed è rieducazione, anzi reinserimento, per non usare il linguaggio etico del passato: ti aiuto a diventare una persona diversa, spezzo il circolo vizioso, abbasso il tasso di recidiva.
Belle teorie, da confrontare con la realtà. A marzo un detenuto di Rebibbia ha colpito un agente in faccia, con un estintore. A giugno, un altro è stato ferito da un punteruolo. Ricordarselo, quando si ripensa all’uomo stanco che ci accompagna fuori. Ma allora, l’ispettore Cinzia Silvano? Come si spiega il suo entusiasmo ruvido, pragmatico, diretto?
La vita in 2 minuti
Nel corridoio di fronte alla cella colloqui c’è una bacheca. Gli scrivani F. e P. (laureati in Giurisprudenza) affiggono le offerte di lavoro degli imprenditori, stampate con tre macchine regalate dalla Prink.
Seconda Chance si propone una cosa semplice: mettere in contatto con i potenziali datori di lavoro i detenuti che avrebbero diritto a uscire dal carcere per lavorare all’esterno. Finora ha trovato lavoro a 110 persone. C’è una legge, che prende il nome dall’ex partigiano e parlamentare dem Carlo Smuraglia, che consente, a certe condizioni, il lavoro all’esterno, con sgravi per chi si prende l’onere di assumere, anche a tempo determinato, un detenuto.
Siamo qui per questo, in questa stanzetta di Rebibbia, uguale alle altre ma con la porta aperta. Dietro il tavolo ci sono Silvano e Filippi, come maestre in cattedra. Di fianco, un’educatrice e il datore di lavoro. Oggi ci sono chef e proprietari di ristoranti, ma ad assumere sono anche enti pubblici, grandi aziende private, associazioni. A turno entrano i detenuti. Si siedono di fronte allo chef e riassumono la loro vita in due minuti.
«Mi chiamo Oreste, sono nato nel 1982, vivevo a Ponte di Nona. Ho due figli ma non so più dove sono. Avevo un banco di frutta con mio padre. Mia madre è morta che avevo cinque anni. Chef, voglio solo lavora’». Lo chef è il barbuto Romano Luzzi, dell’omonima trattoria vista Colosseo, un uomo spiccio, con quella simpatia brutale tipica dei romani: «Non so’ chef, so’ cuoco de ‘na trattoria. Amico mio, ricordati che quanno esci te devi dimentica’ tutta ‘a monnezza che c’è sta qua dentro». Oreste fa sì con la testa. Il ristoratore non sa nulla di lui: solo a colloquio finito avrà la sua scheda e saprà che è in carcere per reati di droga.
«Tre tipi di carbonara»
Entra Daniele, terzo di dieci fratelli, di Taurianova, in Calabria. Prima avevano due locali, poi la madre ha affittato ai cinesi ed è finita in carcere. Sa fare il pizzaiolo e il muratore, ha una figlia di 20 anni. Ha l’occhio perso nel vuoto, si riscuote solo quando viene chiamato. Entra Shegow, nato a Torbellamonaca da genitori somali, sembra un rapper: capelli biondi ossigenati, camicia bianca, orologio di marca. Ha due fratelli, anche loro qui. A Rebibbia ha lavorato due anni in cucina e tre come portavitto: «Solo il Signore mi può aiutare», dice con posa teatrale. «Ma quale Signore, ti aiutiamo noi». Antonello, 57 anni, di Nettuno, tentata rapina, fine pena 2031: «Certo che so cucinare, avevo una tavola calda ad Aprilia. Preparavo ravioli, gnocchi, pizze. Qui mi son costruito da solo un fornetto, so fare tre tipi di carbonara». Lo chef ha un sussulto: «Nun di’ eresie, la carbonara è una». Ex benzinaio, ex macellaio da Italcarni a Nettuno, giocava in serie D con l’Anziolavinio. Porta una collana di perle, i calzoncini corti, le Asics.
Fuori dalla cella c’è una piccola fila di detenuti, in attesa. Provano a darsi un contegno, a mostrarsi degni di un lavoro. C’è chi non ha dormito, chi aspetta questo appuntamento da mesi. Entra Alessio, classe 1984, di Ottavia, due bambine di 5 e 6 anni. Faceva il cameriere sulla Giustiniana e in via Fani, ha gestito il ristorante del Circolo di tennis Casetta bianca. Era libero, poi quando i suoi reati di droga del 2009 sono diventati definitivi, dieci anni dopo, è andato a costituirsi. «Dottoressa, se sbaglio mandami pure al G9». I reparti sono sette, disposti su tre piani. Il G8 è il migliore, ospita i definitivi, di lungo corso. Qui c’è la cosiddetta «sorveglianza dinamica»: le porte sono aperte per 12 ore, c’è una sala musica, un’area bricolage. Il patto è ferreo: chi sgarra viene trasferito.
Arriva al colloquio Giulio, condannato per narcotraffico, la faccia seria: verrà assunto da un noto bistrot di Roma Nord e il personale farà una colletta per comprargli una tessera Atac.
Il vestito nuovo
Da fuori si sentono le urla, è una detenuta trans. Entra, è simpatica, fa battute strampalate, tutti ridono. Poi ci spiegano: «Passa da un Opg all’altro». Gli Opg erano gli ospedali psichiatrici giudiziari, ora Rems.
L’ultimo della fila è un altro Alessio, classe 1998, di Monterotondo, ex carrozziere, in carcere da 3 anni, con l’accusa di tentato omicidio: «Ma no, quale omicidio, era uno straniero ubriaco che mi ha aggredito. Mi sono solo difeso». La chef di un ristorante di Trastevere lo sceglie per la sala. Il giorno fatidico arriverà un paio di mesi dopo il colloquio, con la decisione del Tribunale di sorveglianza. Carlo – che non usciva dal carcere da 3 anni e mezzo – da allora segue un percorso obbligato, agli stessi orari: una metro e un autobus, da Rebibbia a piazza San Cosimato. Ha un cellulare per la reperibilità, che riconsegna ogni sera, di ritorno al padiglione Venere del reparto G8.
Il primo giorno di lavoro, Filippi lo ha accompagnato all’Oviesse, di fianco al ristorante, per comprare i pantaloni neri e la camicia bianca: «Lo shopping è stato velocissimo. Poi gli ho proposto di chiamare la mamma per avvisarla che tutto sta ricominciando. Ho fatto il numero con il mio telefono. Mi sono presentata, le ho passato il figlio.Lui ha detto:“Pronto ma’?”. E mi sono commossa».
Nella cella continuano i colloqui. Ci sono detenuti che già lavorano in carcere, ma fanno gli scopini, gli spesini, gli scrivani per le domandine. Non è un lavoro, è un’altra punizione. All’uscita gli chef hanno lo sguardo contento e turbato di chi sa di aver fatto la cosa giusta, con un retropensiero inevitabile: «E se ci ricasca?». Può succedere, è un rischio calcolato. Ma non succede quasi mai: sono uomini che rinascono, non avranno una terza chance.
Corridoi infiniti
L’agente mi guida lungo il corridoio infinito, i passi rimbombano. Provo a scherzare. «Ci vorrebbero i monopattini elettrici». Sono lunghi canyon con le pareti bianche e azzurre. Nessun quadro, solo una finestra che dà su un campo da tennis vuoto. L’unica prospettiva ottica è una grande cancellata chiusa in fondo, porta dell’inferno o del paradiso, a seconda della direzione. L’agente mi legge nel pensiero: «Questo non è niente, vedesse gli altri corridoi. Un collega aveva preso l’abitudine di venirci in bicicletta». Poi fa una pausa e si aggiusta il basco: «È sbagliata ‘sta cosa». Cosa, dico sorpreso. Mentre apro bocca, ho già capito: «Questa storia che girano liberi, che vanno a lavorare, che fanno teatro, che giocano a tennis. Che ridono e scherzano. Ma cosa crede che facciano questi, quando escono? Tornano a delinquere, rubano, ammazzano. Perché sono fatti così. Non cambiano. Qui sono in vacanza». Ma non è detto che ci ricaschino, provo a obiettare. Mi guarda negli occhi, per la prima volta: «Questi non cambiano. Fosse per me, starebbero chiusi dentro. Devono soffrire per quello che hanno fatto».
La porta di metallo si apre. L’agente mi dà le chiavi, recupero il cellulare nella cassetta di sicurezza. «Fa’ passare il giornalista». Il cancello si apre con uno scatto. Fuori c’è il deserto, l’aria è ancora calda, ma ora si respira.