Corriere della Sera, 2 ottobre 2022
Intervista a Andrey Melnichenko
Vladimir Putin è ancora in pieno controllo della situazione? «La Russia è un Paese enorme. Putin ha il sostegno della maggioranza della popolazione e del più grande partito politico. Quindi sì, da un lato è in controllo: se prende una decisione questa viene eseguita. Ma, dall’altro, non c’è vera competizione politica e l’esecutivo non deve rispondere alla società. Questo significa che il metro di valutazione per il successo di un amministratore sono la qualità dell’esecuzione delle istruzioni che vengono dall’alto e la dimostrazione di lealtà incondizionata a ogni iniziativa associata al nome del presidente. Ma l’attuale classe amministrativa non è particolarmente capace e nel tempo sono emersi vari centri che si sono arrogati il diritto di agire in nome del presidente. Putin è un essere umano e non ha il controllo su questo caos, semplicemente non è possibile. Il risultato è che, durante periodi di instabilità, c’è il pericolo che questo tipo di gestione possa produrre eventi catastrofici».
Dopo le recenti sconfitte subite dall’esercito russo in Ucraina, Putin ha ordinato la mobilitazione parziale e indetto i referendum per l’annessione di quattro regioni del Donbass. Perché lo ha fatto? E questo non influenzerà la sua popolarità, come già mostrano le prime manifestazioni di protesta? «Il presidente lo ha fatto perché non aveva scelta. Gli Usa non sono disponibili a raggiungere un accordo generale sulla sicurezza in Europa. La sola alternativa era riconoscere la propria debolezza e l’incapacità di raggiungere gli obiettivi dell’Operazione speciale. Sarebbe equivalso a un suicidio politico. La mobilitazione aggiusterà l’equilibrio delle capacità militari. L’annessione delle nuove regioni è una cosa molto seria. L’Occidente non ha ancora capito cosa significhi realmente. Una volta acquisita, sarà impossibile da cambiare. Né da Putin né dai suoi successori, per i prossimi 30 o 40 anni. Per farlo sarebbe necessaria una maggioranza qualificata nelle due Camere legislative e questo non credo sia possibile. Comunisti, nazionalisti, una significativa parte del Centro non appoggeranno mai una tale decisione, tanto più sotto pressione esterna. In Occidente c’è l’idea che in Russia tutto sia deciso da Putin e che tutti i problemi, in primis quelli di sicurezza, saranno risolti non appena ci sarà un cambio di regime. È un’idea ingenua e pericolosa. E ancora più pericolosa è l’idea che l’isolamento e la pressione economica sulla Russia possano rendere il mondo un posto più sicuro. Quanto alla popolarità del presidente non credo che soffrirà in modo serio. La società russa si adatterà rapidamente alla nuova realtà».
Quando senti parlare Andrey Melnichenko e pensi al suo patrimonio da 19 miliardi di euro (Forbes, 2021) viene in mente la pipa di Magritte. «Io non sono un oligarca», non si è stancato di ripetere il plurimiliardario russo nelle due ore che ho trascorso con lui nella hall dell’albergo di Dubai, che dallo scorso marzo è diventato la sua casa. Eppure, tutto nella sua biografia sembra indicarlo come tale. Ha fatto i soldi nel Far West sovietico e poi russo degli Anni Novanta, quando la vita valeva poco, i soldi si facevano in una notte e senza krysha, la copertura politica, non si andava da nessuna parte. Aveva appena 21 anni nel 1993, quando fondò la Mdm Bank assieme ad alcuni amici con un capitale iniziale di appena 30 mila dollari. E quando la rivendette, nel 2007, la banca valeva 4,5 miliardi di dollari.
Su un punto però Melnichenko, che cita con disinvoltura Aristotele ed Erich Fromm, ha ragione: «Un oligarca è una persona ricca che ha influenza politica. In Russia questa figura apparve nel 1995, come esito del trasferimento in mano privata dei più attraenti beni pubblici. Fu un’operazione politica, il cui obiettivo era di creare un gruppo naturalmente interessato nel proteggere il regime e le favolose proprietà che ne aveva ricevuto». Ma lui non era fra loro: «Io mi sono fatto da solo». Sin da quando, brillante studente di fisica all’Università di Mosca, si reinventò come agente di cambio nel campus. Non l’ho mai conosciuto, ma ricordo bene i baracchini intorno alla Mgu, né legali né illegali, dove andavamo a cambiare i dollari, ricevendo montagne di rubli.
L’incomprensione
L’annessione delle nuove regioni è una cosa molto seria. L’Occidente non ha ancora capito cosa significhi realmente
Una volta acquisita sarà impossibile da cambiare, per Putin o per i suoi successori, nei prossimi 30 o 40 anni
Il resto è storia: banchiere, industriale, infine anche tycoon che fa beneficenza e solca i mari a bordo di «A», il più grande veliero del mondo progettato per lui da Philippe Starck. Oggi EuroChem, basata in Svizzera, e la russa Suek sono entrambi leader globali nei rispettivi settori dei fertilizzanti e del carbone. Com’è stato possibile? «Dopo le grandi privatizzazioni degli anni Novanta, che riguardarono le industrie più appetibili, c’erano tante altre piccole aziende che erano state privatizzate, ma le cui proprietà rimanevano disperse. Nel carbone, per esempio, ogni miniera era stata privatizzata singolarmente, lo stesso nei tubi e nei fertilizzanti. Non c’erano conglomerati. Così mi sono concentrato su questi settori. Fu una scelta strategica, volevamo diventare leader in ognuno di essi. Partivamo da zero e in venti anni siamo diventati global player. Ma non abbiamo mai comprato nulla dallo Stato, né gli abbiamo venduto niente. Non ho mai avuto incarichi politici e dal 2004 non vivo in Russia».
Ma ora Andrey Melnichenko ha un problema. Da sei mesi è nella lista delle sanzioni personali, imposte dall’Occidente contro i nababbi russi dopo l’invasione dell’Ucraina. Non può più viaggiare in Europa o negli Usa. Ha dovuto lasciare anche la Svizzera, dove abitava da 18 anni. Il suo business è in sofferenza, il suo celebre yacht è stato sequestrato ed è ora in secco nel porto di Trieste dove lo Stato italiano spende profumatamente per mantenerlo in buone condizioni. «Appartiene al circolo più influente degli imprenditori russi che hanno strette connessioni con il governo», recita la motivazione con cui l’Ue lo ha sanzionato.
Melnichenko contesta questa descrizione e ha chiesto alla Corte di Giustizia e al Consiglio europeo di revocare la misura. «Le sanzioni personali contro di me sono ingiuste e inutili rispetto al raggiungimento dei loro obiettivi e causano sofferenze a milioni di persone che nulla hanno a che vedere con la guerra in Ucraina. L’obiettivo delle sanzioni contro i russi influenti mira a cambiarne i comportamenti, per indebolirne il sostegno al regime. Ma io non ho alcun capitale politico per influenzare lo Stato né appartengo al cerchio ristretto del presidente Putin. Quanto al secondo obiettivo, quello di danneggiare l’economia della Russia per diminuire la capacità del Cremlino di finanziare azioni militari, allora sarebbe stato più efficace sanzionare non me, ma i settori dove operano le mie aziende».
Gli chiedo di spiegare queste due affermazioni. Quali sono i suoi rapporti personali con Putin? «Non lo conosco personalmente», dice Melnichenko, «non l’ho mai incontrato da solo, soltanto insieme a gruppi di imprenditori». L’altra questione è più complicata. Melnichenko sostiene che le sanzioni contro di lui danneggiano il suo business e arrecano un grave danno all’agricoltura mondiale, visto che 37,5 milioni di tonnellate di fertilizzanti russi esportati annualmente sono pari al 15% dell’export globale e sostengono una produzione che garantisce cibo per 750 milioni di persone. Ma in realtà non ci sono sanzioni europee sul carbone e sui fertilizzanti russi. «Il problema», spiega, «è che l’Ue non specifica le restrizioni, tocca a ogni Stato farlo. E succede spesso che le sanzioni vengano applicate non solo alle persone ma anche alle aziende con loro affiliate. Per esempio, il governo della Lituania ha designato Lifosa, il più grande produttore di fosfati in Europa, perché legata a me, in quanto sussidiaria di EuroChem, che l’ha acquistata nel 2002. Negli ultimi 20 anni abbiamo investito molto nell’azienda e pagato quasi 500 milioni di euro di tasse al bilancio lituano. Lifosa produceva ogni anno 1,2 milioni di tonnellate di fertilizzanti, abbastanza per assicurare la produzione di 13 milioni di tonnellate annue di cereali, sufficienti a sfamare 23 milioni di persone. L’attività di Lifosa è cessata in aprile, e ha fatto aumentare i costi nei suoi mercati principali, quelli ucraini ed europei, i cui contadini devono essere sostenuti dai governi. I leader occidentali sono unanimi nel dire che è inaccettabile usare la fame come arma e che l’esportazione di fertilizzanti russi dev’essere libera. Ma non hanno previsto quanto accade e cioè che le sanzioni personali nei miei confronti influenzano il mercato globale». Melnichenko è stato uno dei pochi imprenditori russi a esprimersi criticamente sulla guerra in Ucraina, definendola una «tragedia». «La pace deve prevalere, ne abbiamo bisogno», dice. Ma si poteva evitare? «Ogni tragedia si può e si deve evitare. Sfortunatamente non abbiamo ancora imparato a risolvere i nostri problemi in modo pacifico». Quando però chiedo se la cosiddetta Operazione speciale fosse giustificata, si irrigidisce: «Lasciamo la risposta agli storici, nel futuro quando le emozioni non saranno così forti. Ci vorrà tempo, sono passati più di 80 anni dall’inizio della Seconda guerra mondiale ma rimane ancora un tema che catalizza i conflitti odierni, compreso quello in Ucraina. Ed è veramente importante stabilirlo? Ciò che conta è riguadagnare un nuovo equilibrio globale, in grado di dare altri 35 anni di pace, crescita e prosperità, come quelli che sono seguiti alla fine della Guerra fredda».