il Fatto Quotidiano, 1 ottobre 2022
Ritratto di Alex Langer
Amava il verde dei pascoli delle sue montagne, Alex, ma nel suo impegno pubblico il ragazzo di Vipiteno divenuto cittadino del mondo rifuggiva quel che chiamava stallgeruch, ovvero il “fetore di stalla” sprigionato dalle idee rinchiuse nell’autosufficienza.
Più precisamente, intendeva per stallgeruch “quel caldo e umido odore di intimità che fa distinguere i ‘nostri’ dagli ‘altri’”: ovvero la cattiva ma comoda abitudine di mantenersi in consorteria fra simili, abitudine in cui ammoniva di non adagiarsi. Alex ci invitava a una continua, faticosa rimessa in discussione del nostro ruolo, fin troppo incline com’era a colpevolizzarsi del proprio. Neanche da eurodeputato smise di praticare uno stile di vita frugale al limite del francescanesimo. Rovistando fra gli scrupoli che lo assillavano e che prendevano la forma di cartoline, lettere, appelli, articoli, documenti, il suo biografo Fabio Levi ha trovato questo monito attualissimo sui vizi tipici della militanza: “I promotori, gli agitatori, i salvatori, i missionari, le avanguardie, credono di dover portare gli altri lì dove loro stessi pensano di essere arrivati, di far loro fare – per il loro bene s’intende – quel che da soli non farebbero”. E proseguiva: “Un modello di azione più conviviale, più solidale, più circolare (agire insieme, partire dall’interno, grass roots-iniziatives) probabilmente risparmierebbe tanti guai provocati dalle ‘avanguardie’ che presumono di aver individuato il ‘livello più alto dello scontro’ e di essersi piazzati lì”. Poliglotta com’era, interprete e traduttore formidabile, cercava in più lingue il significato profondo delle parole necessarie a evadere dalla banalità della propaganda.
L’aspirazione a una vera e propria “conversione ecologica”, esito finale della sua ricerca di giustizia sociale, di convivenza interetnica e di armonia nel creato, germogliò dall’incrocio fecondo che contraddistingueva l’esperienza di Alex; e cioè l’incrocio tra la dimensione di vita locale, radicata nelle tradizioni di un territorio, e l’intuizione precoce di una possibile “globalizzazione dal basso”.
Eviterò di indugiare nella messe dei ricordi personali che a decenni di distanza continuano a ispirarmi gratitudine e rimpianto per un maestro troppo poco compreso, anche nei suoi tormenti. Me ne concedo solo un paio, buoni a illustrare l’Alex “locale” e l’Alex “globale”. Una volta, doveva essere il 1984, mi propose di accompagnarlo a San Leonardo in Val Passiria, a metà strada fra Merano e la sua Vipiteno-Sterzing (guai a derogare dal bilinguismo, con lui, che si imponeva di chiamare sempre la sua terra col doppio nome di Alto Adige e Sudtirolo). Voleva farmi visitare la casa natale e il monumento eretto in onore di Andreas Hofer, l’eroe guerrigliero dell’indipendentismo tirolese catturato dalle truppe napoleoniche e fucilato a Mantova nel 1810. A condurlo in quel luogo era il desiderio di avviare un dialogo senza pregiudizi con Eva Klotz, figlia di un terrorista dinamitardo e portavoce di un movimento secessionista, da lui incontrata sui banchi del consiglio provinciale di Bolzano. Pur nel dissenso, voleva capire cosa rappresentasse l’Heimat per quella donna legata al mito di Hofer. O meglio, voleva capire come un movimento popolare potesse assumere connotazioni reazionarie e xenofobe, come di lì a poco avremmo visto riprodursi tanto in Italia (il leghismo) che nei Balcani.
Alla caduta della cortina di ferro, nel 1991, gli capitò di doversi confrontare in un seminario con la sensibilità dei dissidenti dell’Est Europa che si erano appena liberati dal giogo del socialismo reale e dunque si sentivano in diritto di obiettare agli europei occidentali di sinistra: “Voi sarete post-nazionalisti, ma lasciate che noi per ora siamo post-internazionalisti”. Alex però già intuiva che quei dissidenti rischiavano di trasformarsi in artefici inconsapevoli di “terremoti etno-nazionali”, e a loro rispondeva che lo Stato nazionale non può più essere una soluzione, si tratta bensì di una “tecnologia non appropriata”. Era miope ma aveva la vista lunga e sapeva nuotare controcorrente. Fu così che, quando s’imbatté negli orrori della pulizia etnica in Bosnia, decise di sfidare anche i luoghi comuni del movimento pacifista di cui era animatore. Lui che durante il servizio di leva, da “proletario in divisa”, aveva imparato a detestare il militarismo, riconobbe la necessità di “una credibile autorità internazionale che sappia minacciare e anche impiegare – accanto agli strumenti ben più importanti della diplomazia, della mediazione, della conciliazione democratica – la forza militare, esattamente come avviene con la polizia sul piano interno degli Stati”. Invano aveva proposto che l’Unione europea costituisse, sotto l’egida delle Nazioni Unite, un Corpo Civile di Pace Internazionale del quale aveva anche immaginato nei dettagli la possibile composizione mista: diplomatici, militari e volontari insieme. Sono convinto che non si sarebbe rifugiato in un neutralismo passivo neanche oggi, di fronte all’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito di Putin. E pazienza se ciò dava scandalo: era la conseguenza logica cui giungeva un nonviolento da sempre impegnato a mettere in pratica esperienze di convivenza inter-etnica.
Sei anni dopo quel nostro viaggio “locale” in Val Passiria, tra i tanti scelgo infine di raccontare l’ultimo che abbiamo fatto insieme, dal profilo decisamente “globale”. Era il 1990, da poco Alex era stato eletto al Parlamento europeo nella lista dei Verdi, quando mi propose di accompagnarlo nella capitale del capitalismo occidentale: Washington. In concomitanza con il meeting del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, una rete intercontinentale di Organizzazioni non governative aveva deciso di convocare per la prima volta un vero e proprio controvertice. Cominciava a prendere forma il movimento internazionale che nel nuovo secolo avrebbe dato vita ai Forum sociali. Chi oggi si richiama all’enciclica “Laudato sì” di papa Francesco, in cui si denuncia la “sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza”, e si afferma che “è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti”, vi troverà assonanze evidenti con un progetto che Alex maturò a partire dal 1988, quasi trent’anni prima.
Addolora pensare che Alex, sempre più spesso citato a sproposito e inserito post mortem nel pantheon di forze politiche che lo trattavano da ingenuo sognatore, non possa constatare quanto abbia davvero lievitato il suo insegnamento. Gli è sopravvissuta, rigenerandosi, una visione della complessità e dell’interdipendenza, fondata sull’umiltà del lavoro politico di base e sulla ricerca di soluzioni alternative alle sfide globali. La sola che attragga anche i giovani di casa nostra, per quanto essi siano ridotti a minoranza sacrificata in una società gerontocratica.
Ricordiamo Alex come uomo di sinistra proteso allo sconfinamento dalle dottrine e dalle pratiche di potere che l’hanno rimpicciolita. Impegnato a esplorare i limiti connaturati alla sua stessa natura. Così Alex li descriveva: “Succede che la sinistra si sia lasciata storicamente collocare in una posizione di svantaggio in una serie di binomi dialettici: occupando lo spazio dell’utopia lasciava alla destra quello dell’esperienza; imperniando la propria azione in vista del futuro, il passato rimaneva di pertinenza della destra; alle speranze un po’ visionarie della sinistra, la destra poteva opporre il buon senso e rivendicare la profondità delle radici contro le fioriture un po’ effimere della sinistra”. Per la verità, cammin facendo, si ha la sensazione che la sinistra – almeno quella “ufficiale” – abbia dismesso lo spazio dell’utopia e le speranze visionarie che invece erano la molla dell’agire quotidiano di Alex.