Tuttolibri, 1 ottobre 2022
Intervista a Emmanuel Carrère
Conan Doyle e il primo Sherlock Holmes. Emmanuel Carrère sta al gioco dei libri di una vita. A Paolo Nori che l’ha invitato al festival di Parma «Questa è Acqua», dove artisti e scrittori sono stati chiamati a raccontare se stessi attraverso i propri libri, ha inviato la sua «piccola lista». I lettori di Carrère in realtà sospettano da sempre che la sua vera autobiografia siano i libri che ha scritto e dove gioca in primo piano, da protagonista: la sua vita come un romanzo (russo). Ma quando glielo dico, lui si ritrae, anzi nega con decisione: «Solo in due miei libri sono il protagonista, Romanzo russo e Yoga». E negli altri? «Sono il narratore, non il soggetto del libro». Un narratore amico, però, onnipresente nel libro, sia che racconti L’ Avversario o il demoniaco Limonov, uno scrittore che per prima cosa vuol mettere il lettore a suo agio, e dunque si materializza come se si fosse seduti in salotto a conversare. In realtà ci sarebbe almeno un altro libro in cui è protagonista, Facciamo un gioco, ma non lo si può definire un romanzo, piuttosto un divertimento e lo lasciamo a chi ricorda la febbre erotica di quel viaggio d’estate in Tgv…
Dunque la prima risposta alla domanda sui libri di una vita è Uno studio in rosso (A Study Scarlet), il romanzo in cui Sherlock Holmes incontra per la prima volta John Watson, il medico ferito nella guerra d’Afghanistan e che torna a Londra in cerca di casa. È il 1881 e con quel libro nasce in Baker street la leggenda dell’investigatore scienziato: «Ci sono libri di science fiction che mi hanno molto segnato. Non solo Conan Doyle, ma anche autori e opere considerate minori». Non si può certo considerare minore Philip K. Dick, di cui Carrère aveva scritto trent’anni fa un’appassionata biografia (Io sono vivo, voi siete morti) che Adelphi ora ripubblica in edizione tascabile. Ma nella ricostruzione nella vita del visionario autore americano («Un Dostoevskij della nostra epoca») ci sono tutte le tracce del Carrère che verrà: «Quei libri hanno lasciato in me un segno duraturo».
Ma di quali altri autori parlerà oggi a Parma?
«Nella mia lista ho messo i libri di Roberto Calasso che è stato un immenso editore, io ho avuto il privilegio di essere uno dei suoi autori e lui ha fatto molto per me. Ma è stato anche uno scrittore importante, di opere filosofiche sul mondo indiano, a anche molto intime come l’ultimo Bobi sul personaggio Roberto Bazlen. Avevo veramente voglia di rendere omaggio a Calasso, per ammirazione e riconoscenza».
E se le chiedo dei russi, che sono parte della sua vita e della sua formazione?
«Le rispondo con Evghenija Ginzburg. Ha scritto Viaggio nella vertigine, una testimonianza dal Gulag ed è un’autrice molto meno conosciuta di Solzhenicyn o Shalamov, ma che io ammiro enormemente, molto umana».
Tra gli altri ci sarà sicuramente “Stalingrado” di Vasilij Grossman che lei ha raccontato di aver messo in tasca quando’è andato a Mosca per il reportage nei giorni in cui è cominciata l’«operazione speciale» in Ucraina. Perché quel libro?
«È un libro straordinario, è la prima parte di un fiume di scrittura di Grossman e non era certo un fondo di cassetto, è stato intitolato Stalingrado e trovo curioso che due dei più grandi scrittori del secolo scorso, sovietici, fossero entrambi dei corrispondenti di guerra. Grossman e Isaak Babel’, sono persone che hanno conosciuto la realtà concreta della guerra».
E leggendoli che cosa ci insegnano sulla guerra di oggi?
«Io non sono mai andato in guerra, forse perché non sono abbastanza coraggioso e quindi in realtà non so. Ma molti dei reportage che si leggono sulla guerra di oggi danno l’impressione che non sia cambiato molto, anche rispetto al 1914 quando si combatteva nel fango, nella sporcizia, o in quella descritta da Grossman e poi anni dopo in Jugoslavia. Quella in Ucraina di oggi appare come una guerra assai arcaica. I massacri di Butcha o Izyum sono come quelli del passato».
Una guerra primitiva e feroce, com’è nella tradizione russa, non crede?
«Nella seconda guerra mondiale la pratica bellica è stata più feroce all’est che all’ovest. In termini di guerra, sul fronte ovest Hitler si comportava secondo quei criteri che si intendono per guerra normale, all’est è stata di una ferocia assoluta. Si comportava come se all’ovest avesse a che fare con persone che appartenevano allo stesso universo umano, mentre pensava che l’est fosse popolato soltanto da subumani, e non mi riferisco solo agli ebrei».
Ma hanno vinto i russi per una ferocia ancora superiore?
«Per effetto della gigantesca resilienza dei sovietici che ha permesso di salvare l’occidente con venti milioni di morti. Ed è una cosa che Putin non smette di ricordarci oggi. Loro si credono capaci di una resistenza molto più forte degli occidentali. Putin lo dice: in ogni caso noi siamo più determinati di voi, noi siamo pronti a morire in massa, voi no, voi non sapete rinunciare ai vostri comfort, alla vostra vita tranquilla, noi ce ne freghiamo, noi siamo pronti a tutto. È il messaggio che ci manda con insistenza».
Ma i giovani di Mosca che conoscono il mondo, molti anche per averci viaggiato, che parlano le lingue, lavorano nel business secondo lei sono disponibili a morire per Kiev?
«La mia impressione è che sia ormai la guerra di un uomo solo che trascina il suo paese in una catastrofica impresa di follia. Per la maggior parte dei russi finora la guerra era qualcosa che succedeva alla televisione. Adesso comincia a succedere qualcosa nella loro vita. La mobilitazione può modificare la totale e abituale apatia dell’opinione pubblica russa? Non so. Io amo questo paese, ma è un paese che non ha mai mai mai conosciuto la democrazia. Hanno una struttura mentale che per noi è difficile da capire. C’è stata un po’ di democrazia negli anni di El’cin, ma siccome questa democrazia si è accompagnata al caos, alla corruzione, all’arricchimento personale immorale e all’impoverimento degli esclusi, viene associata a qualcosa di totalmente negativo, in Russia. Per questo Putin può facilmente speculare».
Quello che colpisce sempre della Russia è lo scarto tra la qualità dell’intellighenzia, scientifica, letteraria, umana e l’incapacità a tradurre tutto questo in qualità di vita pubblica nel confronto di opinioni. Perché?
«In Russia c’è una grande tradizione essenzialmente letteraria, ma in politica c’è ancora più forte una tradizione di servitù, alla quale la società è totalmente abituata. C’è questa idea che i cittadini non devono immischiarsi nella politica perché alla guida del paese c’è un potere, ed è un potere pericoloso».
E che cosa fa ora Irina, editor di libri per bambini che lei ha incontrato e raccontato in quel reportage da Mosca nei primi giorni della guerra di Putin? E cosa fanno i suoi amici con i quali vi ritrovavate con appuntamenti clandestini, con nomi falsi e messaggi in codice su Telegram?
«Molti se ne sono andati. Dicono che oggi a Istanbul si ha l’impressione che un terzo delle persone che si incontrano per le strade siano russi, lo stesso in Georgia, si sente parlare russo ovunque. Che cosa succederà con tutti questi russi espatriati? Gli ucraini sono accolti in occidente con calore e solidarietà invece verso i russi si manifesta una certa ostilità. Se la Russia diventa uno stato paria, crescerà anche tra i russi una grande amarezza e diffidenza verso l’occidente e anche questo è un sentimento su cui sta speculando Putin».
Come evolverà la guerra?
«Giustamente, non lo sappiamo, non si riesce a immaginare quale possa essere la base per un negoziato. Putin non può certo accettare il ritorno alle frontiere di prima della guerra, cosa può dire al suo paese: abbiamo fatto tutto questo per niente? Non può. Né si può cedere alla Russia che ha invaso un paese in modo del tutto illegittimo. Francamente, non so come si possa fare ad arrivare a un accordo».
È stata una scelta giusta quella di armare Zelensky e l’Ucraina?
«Onestamente io penso di sì. Non si poteva lasciare divorare l’Ucraina così. Sarebbe stato immorale nei confronti degli ucraini e sarebbe stato un segnale di debolezza assoluta, come dire a Putin che poteva fare quel che voleva. Gli ucraini lottano per il loro paese con il sentimento della legittimità».
In Francia è stato appena pubblicato il suo nuovo libro, “V13”, che sta per “vendredi 13 novembre (2015)”, la sera terribile del Bataclan e che in Italia uscirà da Adelphi in primavera. Sono le cronache del processo che lei ha raccontato settimana per settimana sull’Obs e altri giornali europei. Come giudica adesso quel processo?
«La Francia voleva un processo esemplare e lo è stato, per la dignità di tutti, le vittime, le parti civili, le testimonianze degli inquirenti, gli avvocati, i giudici. Ma proprio per tutto questo il verdetto è stato paradossale: ergastolo con una misura di sicurezza incompressibile all’unico sopravvissuto del commando dei terroristi, l’unico che non ha ucciso nessuno, Salah Abdeslam».
Perché giudica questa conclusione paradossale? Salah ha pagato per tutti i kamikaze che evidentemente non erano al processo. È stato il capro espiatorio?
«Sì, la perpetuité incompressible, una misura che era stata data solo quattro volte a criminali di comprovata pericolosità sociale, non gli lascia alcuna speranza. Non c’è più la ghigliottina, ma questa pena è appena al di sotto. Il verdetto ha choccato me e anche molte partici civili per come si era comportato Abdeslam al processo. Ho l’impressione che il principio di proporzionalità della pena sia stato sacrificato alla necessità di una sentenza esemplare».
Lei oggi sarà in Italia: come ha vissuto le elezioni e la vittoria di Giorgia Meloni?
«Come tutti, non ho certo un punto di vista originale, condivido la vostra inquietudine, noi francesi ci siamo salvati per poco dalla Le Pen all’ultima elezione presidenziale. La cosa che mi sorprende è che questo risultato lo si vedeva arrivare, tutti i miei amici italiani lo dicevano. Ed è successo davvero».
Che somiglianze vede con la politica francese?
«Non conosco abbastanza la vita politica italiana. Noi, qui in Francia abbiamo un problema: la sinistra si è completamente allontanata dalle classi popolari, è una gauche che si rivolge soltanto a una borghesia colta e che ha ormai completamente lasciato il mondo del lavoro. Ma non è certo qualcosa di nuovo, anzi risale a Mitterrand che in un certo senso ha creato Le Pen padre».
È la stessa analisi che si fa in Italia.
«Io credo che tutti i populismi hanno la stessa origine, è lo scacco della sinistra che è uscita dal mondo che dovrebbe essere il suo terreno naturale. Uno degli effetti, in Francia, è stata questa manifestazione interessantissima dei gilets gialli. Si può dire quel che si vuole, pensare che siano d’estrema destra ma non è questo il punto, sono delle persone in collera e che hanno ragione d’essere in collera. Non si possono ignorare, non si può accusare il popolo di essere populista». —