Tuttolibri, 1 ottobre 2022
Intervista a Cristina Comencini, parla di lei e di suo figlio Carlo Calenda
Ha appena visto il suo primogenito Carlo – Carlo Calenda – ormai senza voce in tv commentare il risultato elettorale. E il cuore di mamma di Cristina Comencini spera che «ora si prenda un po’ di riposo perché ogni madre si preoccupa se vede il figlio che si stanca troppo; questo lavoro richiede un enorme dispendio di energie ma lui le ha, gli piace essere sul pezzo, la prende come una sfida». Ora lui ha finito il tour elettorale e lei inizia il suo promozionale, perché è appena uscito il libro che l’ha impegnata per quattro anni e a cui tiene moltissimo. Ma prima accetta di parlare un po’ di questo figlio avuto a 18 anni, a sua volta papà a 16 di una bimba che lei ha tirato su da giovane nonna, scrittrice e regista.
Ha dovuto consolarlo o è uno che non si abbatte?
«Carlo e anche noi pensavamo e speravamo che avesse un po’ di più ma è arrivato quasi all’8% con una campagna elettorale di un mese e un partito che non aveva mai fatto una campagna nazionale politica; in ogni caso è un work in progress e lui un grande resiliente, uno che dopo difficoltà o delusioni ricomincia sempre, un combattente».
Com’è nata la sua passione politica?
«In famiglia, ha sempre letto libri di storia più che romanzi e in casa siamo sempre stati tutti interessati alla politica come cittadini, anche se nessuno di noi ha pensato di farla; lui sì ma non si è figli solo di una madre quindi dal padre Fabio ha preso l’interesse per le istituzioni e dal mio secondo marito Riccardo Tozzi che è un produttore il senso della gestione e la capacità di organizzare cose anche creative. Dai Comencini forse ha preso quella parte di – chiamiamola così – follia artistica».
Nel suo libro racconta che Carlo di secondo nome fa Ulianov perché nato il 9 aprile, come Lenin. Ve ne ha mai chiesto conto?
«No perché la considera una boutade della generazione nostra, un gesto “politico” con forme che erano vecchie già allora; anche perché il primo nome era Carlo come il nonno paterno, cioè il massimo della Tradizione familiare».
I figli le hanno detto che poteva omettere qualcosa? Per esempio quando racconta di Carlo cinquenne perso al parco e ritrovato chino a infilar matite su una cacca di cane?
«No non l’hanno ancora letto ma non avrei mai messo niente di imbarazzante, qui sono solo dettagli di bambini, teneri, che loro conoscono. Un libro veramente autobiografico l’ho scritto ma non l’ho pubblicato, e non lo farò».
Chiusa la parentesi figlio parliamo di lei, la sua è una famigliona da romanzo, con ascendenze speciali, dalla nonna principessa decaduta – Eleonora Grifeo di Partanna – al papà grande regista, Luigi Comencini; madre napoletana e cattolica, padre lombardo e valdese. Molto di sé lo ha seminato qua e là nel nuovo romanzo. Che non a caso s’intitola “Flashback” e ha un libro nel libro, un’autobiografia con scorci di nudità vedo non vedo, tra storie di altre donne vissute in momenti diversi nella Storia. Davvero è nato da esperienze di “amnesia globale transitoria”?
«Abbastanza, nel senso che ne ho avute quattro in un periodo della vita; avevo delle intuizioni, immagini che poi, come avviene in letteratura, producono altro e portano personaggi che si fanno strada. In questo caso erano legati alla Storia, come se in periodi precedenti io avessi ritrovato me stessa. Quindi la domanda non è “cosa c’è di autobiografico”, ma il contrario, non la mia vita che va in un romanzo, ma il romanzo che entra nella mia vita privata fino, a momenti, a minacciarla».
La prima donna di cui parla era una cocotte della Comune di Parigi e lei inserisce subito un flashback autobiografico, l’inizio della fine del suo primo matrimonio. Suo marito non capiva cosa potesse condividere con lei; non è intuitivo.
«Io non ho vissuto come lei, ovvio, però il suo desiderio di piacere e la sua femminilità è qualcosa che mi interessa; e mi interessa il disturbo che arreca la scrittura, perché quando si finisce di scrivere una storia si è scombussolati, capovolti, è difficile conciliare questo con la vita normale».
La seconda donna vive la rivoluzione russa e le è comparsa dopo la seconda separazione. La fa parlare di maternità e dire che un figlio è “l’atto più rivoluzionario che ci sia”, perché?
«Perché è una cosa eccezionale, non istintiva come sempre è stato detto, ma invece una costruzione gigantesca, un atto sconvolgente. I bambini continuano a nascere sempre, anche in guerre e rivoluzioni, e il fatto che questa madre, con quello che le sta accadendo intorno pensi al latte, se ce l’avrà o no, dice l’energia e la cultura di far rimanere in vita qualcuno. Un destino che Sofia non ha scelto subito, ma poi sì, sente che è una cosa enorme e vi aderisce. È importante perché la maternità oggi è una scelta e valutare questo lavoro come eccezionale forse è una cosa che aspetta di essere scritta».
Con la terza donna del libro, che ha vissuto la Resistenza, parla del suo rapporto con la politica. Dice che da ragazza era “estrema”, per poi passare alla sinistra riformista. Che le diceva suo padre?
«La formazione di papà era Giustizia e Libertà, profondamente democratica; quando col mio primo marito ci avvicinammo a un gruppo extraparlamentare lui ci rispettava, pensando che la giovinezza è sempre un po’ estrema».
La quarta è una ragazzina, che ha vissuto il glamour dei Sixties a Londra e la rivoluzione sessuale. Il nodo è ancora la maternità, quando “aspettare un bambino non è cool”. Qui racconta di quando è stata lei a restare incinta e l’ha confidato a mamma. Anche per lei non era “cool”?
«No, io no; queste sono donne legate da un filo che sono io ma è anche la Storia, quindi si parla di momenti diversi. Quando è capitato a me ero giovanissima e lo dissi a mia madre: ma lei, donna cattolica per cui il fatto che aspettassi un bambino aveva un valore in sé al di là della mia relazione, mi disse quello che io riporto nel libro, e cioè “il bambino tienilo ma non ti devi sposare per forza”, una posizione avanzatissima che io rifiutai perché il padre mi piaceva moltissimo e volevo sposarlo. Quella di Sheila invece era una libertà “monca”, toglieva dalla vita un aspetto altamente creativo».
La sua famiglia: l’educazione culturale, lei qui cita molti libri. Chi consigliava in casa?
«C’era una certa libertà di scelta, noi rubavamo molto dalla libreria di papà che tollerava i furti; se erano usati o si perdevano voleva dire che qualcuno li aveva letti. Solo non mi faceva comprare fumetti, così quelli li rubavo a casa delle mie amiche. Questo però ha fatto sì che leggessimo subito i romanzoni russi, francesi. In famiglia c’era una sorta di “esaltazione dell’intelligenza”, e io che non ero una brava studentessa – finché mi hanno bocciata, poi sono migliorata – mi sentivo un po’ frustrata. Non imponevano però erano modelli forti».
Racconta che, con il primo marito, galeotto è stato “Guerra e pace”. Anche suo padre adorava Tolstoj e voleva fare un film della Sonata a Kreutzer, che lei definisce “il racconto più completo di femminicidio”. Perché gli piaceva proprio quello?
«L’epilogo gli sembrava terribile e non gli ha fatto più fare il film; però era interessato alla costruzione che fa il personaggio della gelosia per la moglie. E poi gli piaceva l’inizio sul treno perché amava quel raccontare ai compagni di viaggio, cosa che non si fa più perché siamo tutti coi telefonini».
Com’era la libreria di casa?
«Ordinata ma non maniacale, divisa per lingua, nello studio di papà; mamma aveva la sua, privata, coi libri che amava solo lei come per stabilire una sua libertà. Però poi avevano gusti simili. Quando uscì Cent’anni di solitudine lo spaccarono in due perché uno lo iniziava e l’altro lo finiva».
L’educazione al cinema?
«In casa: mio padre aveva un proiettore super8 e alle feste proiettava film. Il Monello l’ho visto così, con i miei amici; quando proiettò Incompreso successe una tragedia perché le mamme che venivano a prendere i figli li trovavano devastati dal pianto. C’era poi molto l’idea del filmino fatto in casa, per esempio a Natale, e con papà ovviamente il salotto era sempre pieno di gente che urlava, sceneggiatori che sceneggiavano insieme».
Anche fra i registi amati, molti russi. A ?jzenštejn dedica un personaggio e sulla Corazzata Potëmkin si toglie un sassolino dicendo che le sue opere sono “classici insuperati, anche se un nostro attore comico ci rideva su”. L’ha detto a Villaggio?
«No, lui ha fatto una cosa giusta in quel momento, ma se uno toglie quei film dall’ideologia e non presta il fianco all’ironia pungente e sempre perfetta di Villaggio allora ci vede una sapienza e una capacità di evocare, di fare inquadrature straordinarie, Odessa, la scalinata, i carrelli. Ho fatto una ricerca sui carrelli montati lì, una innovazione assoluta».
La religione: cattolica o protestante?
«Mamma era cattolica e papà l’ha sposata in chiesa facendo una rinuncia e dicendo che i figli sarebbero stati educati alla religione cattolica. Lui non era credente ma interessato, un laico che dubita. Noi quindi abbiamo ricevuto i sacramenti ma io non mi sono sposata mai in chiesa. Papà e mamma apprezzavano molto la parte di solidarietà della Chiesa che si esprimeva in molti modi. Poi dopo un lutto abbiamo conosciuto la pastora Bonafede a Roma e ho scoperto un pezzo dell’altra cultura familiare, che non era stata tramandata ma esisteva».
La villeggiatura: mare o monti? Parla molto di Ischia.
«Mare mare, tre mesi a Ischia. Si finiva la scuola e si andava là. Siccome si girava molto d’estate ho questo ricordo tenero e bello di mio padre che il venerdì prendeva il treno e l’aliscafo e noi andavamo ad aspettarlo al porto».
Le case: suo padre prima che regista era architetto...
«Papà era innamorato del Bauhaus, di un arredo in cui la funzionalità si sposava all’arte; a mamma da brava napoletana piacevano i divani a fiori e i soprammobili. Lei riscaldava l’ambiente puro di lui, però ne prendeva le linee».
Sua prima lettrice è stata Natalia Ginzburg, avevate anche voi un lessico famigliare?
«Espressioni dialettali no, allusive sì. Se una di noi si era comportata male si diceva: “è nervosa” o, “si è regolata male"». —