La Stampa, 1 ottobre 2022
Intervista a Orhan Pamuk
Il nuovo romanzo di Orhan Pamuk – scrittore turco premio Nobel per la letteratura nel 2006 – s’intitola Le Notti della Peste (Einaudi) ed è un libro sorprendente. Accostarsi alle settecento pagine della traduzione italiana di Barbara la Rosa Salim significa sentire appieno quale privilegio, quale grande dono può diventare essere un lettore, che qui si sente sempre appagato ma mai sazio, che ad ogni pagina riceve dall’autore ciò di cui sente il desiderio.
Al centro del romanzo, suo unico orizzonte apparente (ma in realtà gli orizzonti di questo libro sono vastissimi) è un’isola immaginaria che si chiama Mingher, remota e irraggiungibile eppure così universale, così specchio di una geopolitica contemporanea in cui per tante ragioni non possiamo che riconoscerci.
Orhan Pamuk, al cuore di questo romanzo c’è la peste, ma prima ancora della peste, c’è quest’isola che nel corso del romanzo attraversa l’epidemia e una sequenza di rivolgimenti politici, guidati da un’idea di identità – nazionale, religiosa, sociale – come fattore di conflitto. Quanto apparteniamo tutti a quest’isola?
«Mingher è un’isola immaginaria. Si trova nel Mediterraneo, potrebbe essere Rodi, Cipro, Creta, Kastellorizo. È grande anche quando non sembra tale, perché alcune parti sono invisibili al lettore. Avevo bisogno di un luogo immaginario per costruire una allegoria politica e raccontare la disintegrazione dell’impero ottomano: inventare questo luogo mi era funzionale. Anche se tutti i particolari, la configurazione dell’abitato, i paesaggi, la burocrazia, tutto è coerente con la realtà storica. Avevo inoltre bisogno di una situazione di isolamento, di situare la vicenda in un luogo irraggiungibile. Mingher è un’invenzione storica e per costruire il romanzo politico che avevo in mente di scrivere non potevo né volevo collocarlo in un luogo reale. È in questo senso un romanzo tolstojano, in cui la cornice storica è perfettamente coerente con la realtà, ma la vicenda, i personaggi, tutto ciò che fa parte del tessuto narrativo è invenzione pura».
Mingher è un luogo irraggiungibile, perché inesistente e perché isolato dalla pandemia. Ma è anche un luogo universale, presente, dove il nazionalismo provoca un turbine di rivolgimenti politici.
«Le notti della peste è un romanzo molto politico. Iniziai a scriverlo più di cinque anni fa, ma in realtà l’ho in mente da decenni, sta al cuore della mia narrativa. Che cos’è il nazionalismo? Io credo che ce ne siano di due tipi: c’è un nazionalismo che definirei anticolonialista, fondato sul presupposto della libertà e della liberazione dell’individuo. E poi c’è il nazionalismo dell’aggressione. Non condanno a priori il nazionalismo, non lo condanno se è il motore della libertà. Mingher è una allegoria dell’essere nazione, dove non è tutto ridotto al nazionalismo, c’è ben altro: religione, geografia, storia, comunanza di vita, lingua. In questo romanzo ho voluto raccontare il declino dell’impero ottomanno, l’ottusa crudeltà dell’ultimo pascià, il sultano Abdul Hamid. Non sono nostalgico dell’Impero, ma sento una melancolia profonda».
Il romanzo è ambientato nel 1901 e si svolge nel giro di alcune settimane. Al centro della storia c’è un’epidemia di peste. La peste come luogo letterario diventa qui un paradigma della contemporaneità... Che sfida è stata affrontare l’epidemia come topos letterario e al tempo stesso realtà globale?
«Ho iniziato a scrivere questo romanzo anni prima dell’inizio della pandemia. La peste era per me la chiave di interpretazione dell’allegoria politica che volevo narrare. Mi serviva come modello di processo storico. E avevo tre riferimenti letterari: Defoe, Manzoni e Camus. Ma mentre quest’ultimo fa della peste una sorta di allegoria politica del nazismo, Manzoni (che la pone al centro del suo romanzo anche se la narrazione vera e propria dell’epidemia occupa solo una trentina di pagine) la affronta con grande realismo. La più straordinaria cronaca di un’epidemia, il libro cui mi sento più connesso, è invece Il Diario dell’anno della peste di Defoe: qui la piaga diventa perfetto sondaggio psicologico, storico e sociologico. Il tempo della peste è infatti scandito da fasi costanti: negazione, cospirazione, esercizio di autoritarismo, imposizione della quarantena. Ha tanto a che fare con la politica. Quando spiegavo ai miei amici che il tema della peste era per me un’istanza narrativa, che sentivo la necessità di scrivere un romanzo sulla peste, mi dicevano scherzosamente che non dovevo essere troppo “esoterico”. In un certo senso, dunque, l’arrivo della pandemia è stato per me una fortuna, perché il libro non può più essere sentito come fantascienza, come qualcosa di troppo distante».
Si è chiesto come sarebbe stato accolto il romanzo, senza il covid, senza la dirompente misura di presente che il lettore trova nel libro – proprio quel processo di negazione, occultamento, chiusura che tutti abbiamo vissuto? È incredibile, anzi no, niente affatto incredibile, purtroppo, come certe pagine e certe descrizioni della peste a Mingher siano sovrapponibili alla realtà del covid.
«Prima ho detto che la pandemia è stata per me una fortuna perché ha ricondotto il tema della peste alla portata della realtà. Fortuna ovviamente solo in questo senso. Proprio all’inizio dell’epidemia ho visto mancare mia zia, cui ero molto affezionato. Ma non credo che se non ci fosse stato il covid il libro avrebbe avuto un destino e una ricezione molto diversi. Alla fine il lettore percepisce la vicenda un po’ come una fiaba, per quanto drammatica. Le notti della peste è un romanzo tolstojano, a questo tengo molto. E io stesso, scrivendo a cavallo dell’epidemia, fra il prima e il durante, non ho cambiato quasi niente nel racconto. Solo una cosa, che non avevo messo in conto prima che il covid arrivasse: la paura. Io ho avuto paura, e così, cammin facendo nella scrittura, ho iniettato nei miei personaggi una paura che prima non sarei stato in grado di immaginare».
A proposito di immaginazione. Le voci di questo romanzo sono due. Un io narrante che al momento della storia deve ancora nascere, e la principessa Pakize, autrice di misteriose lettere grazie alle quali la vicenda viene ricostruita. È la grande protagonista del libro anche se vive quasi sempre chiusa in una stanza, fuori dalla storia. Sono entrambe voci di donna. Che cosa ha significato per Orhan Pamuk diventare la voce di due donne?
«La scrittura in fondo altro non è se non la capacità di identificarsi in un altro. E cosa c’è di più altro del genere che non è il tuo? L’interiorità del femminile è, per me maschio, un mistero. Da molti anni, e molti romanzi, ho come obiettivo quello di esplorare il punto di vista femminile, l’altra da me. E continuerò su questa strada anche nei miei prossimi libri. —