Corriere della Sera, 1 ottobre 2022
La vita di Nan Goldin in onda
Ora che il film All the Beauty and the Bloodshed ha avuto un enorme successo e addirittura negli Stati Uniti andrà su Hbo, Nan Goldin è «terrorizzata». Così dice e ripete al telefono con «la Lettura» da New York, dove lavora a ritmo serrato alle stampe della sua retrospettiva. «Terrified», perché? «Perché è la mia vita che va in onda!».
La vicenda commovente di una ragazzina nei sobborghi tra Maryland e Massachusetts, segnata dalla depressione della sorella e dalle difficoltà di una madre mai guarita dagli abusi. Il percorso di una fotografa dal talento debordante, già nei primi casuali scatti. L’obiettivo coerente, in mezzo all’apparente caos di droghe, violenza, malattie, di «rompere lo stigma». «Credo che sia questo il mio ruolo. Il film – continua – per me riguarda lo stigma della malattia mentale, del suicidio: io voglio rompere quanti più pregiudizi posso».
La vergogna della dipendenza: il lavoro della regista Laura Poitras prende le mosse dall’ultima battaglia di Nan Goldin nel campo della «crisi delle overdose», come la definisce lei. Una guerra che ha lasciato in America più caduti che in Vietnam, almeno 900 mila morti dal 1999, con numeri che ogni anno aumentano. Un altro conflitto che l’artista ha combattuto in prima linea, come aveva raccontato in una lunga intervista a «la Lettura» nell’aprile del 2018. Per un banale dolore articolare, spiegava, le era stato prescritto l’OxyContin, oppioide commercializzato come un analgesico senza effetti collaterali, anzi vivamente consigliato dai medici su spinta della casa produttrice Purdue Pharma per placare ogni tipo di dolore.
Nel corpo di Nan, già sopravvissuto alle dipendenze degli anni Ottanta, l’effetto risultò immediatamente devastante, con la necessità di assumerne continuamente in dosi massicce, ricorrendo agli spacciatori, sostituendolo con l’eroina, magari tagliata col Fentanyl. Chi ne fa uso non può saperlo (a meno che non analizzi la dose), ma il rischio è altissimo perché il farmaco è molto potente e può mandare in overdose.
A Goldin è successo, si è spenta, è tornata in sé, è svenuta di nuovo, infine si è riavuta e una telefonata dall’Italia l’ha mantenuta sveglia. Lucida al punto da decidere di ricoverarsi in un centro di disintossicazione. È lì che la fotografa si è resa conto, leggendo il «New Yorker» (il celebre articolo di Patrick Radden Keefe), di essere vittima di un’epidemia, innescata dall’avidità di una società farmaceutica; di proprietà della più nota famiglia di mecenati americani, i «Sackler», generosi finanziatori di musei, università, gallerie.
Da artista, Nan si è sentita a maggior ragione chiamata in causa e con un gruppo di favolosi compagni di viaggio, amici, familiari delle vittime, tossicodipendenti, volontari, simpatizzanti delle più diverse provenienze ha creato PAIN, che significa dolore ma è anche l’acronimo (Prescription addiction intervention now) dell’associazione.
«Per un anno e mezzo abbiamo lavorato all’ipotesi di un film – racconta ancora Nan al telefono – senza soldi né produzione». Hanno cominciato riprendendo le azioni di protesta nei musei: flaconcini di OxyContin lanciati nelle vasche d’acqua del Metropolitan; coriandoli di prescrizioni sparsi dalle scale a volta del Guggenheim; picchetti al grido: «La gente muore, i Sackler mentono».
L’obiettivo era rendere nota la connessione tra la «nobile» famiglia e la crisi degli oppioidi, sporcarne il nome e allontanarlo dalle istituzione culturali.
In uno dei passaggi più toccanti del film, l’artista torna al Met (lo scorso dicembre) e trova il vetro in cui era scritto «Ala Sackler» ripulito. Che effetto le ha fatto? «È molto importante. Ci sono voluti quattro anni di battaglie – risponde – e sono molto orgogliosa di cosa un piccolo gruppo sia riuscito a fare». Nel frattempo anche la Tate Gallery di Londra ha aderito. «È significativo non solo per i singoli casi, ma si stanno aprendo nuove indagini allargate sulla provenienza delle donazioni a musei e università. La gente ora è più trasparente e una parte del merito è del nostro gruppo».
Quanto ai Sackler, però, come sottolinea lo stesso documentario, la vicenda giudiziaria potrebbe concludersi con la bancarotta della Purdue Pharma (presentata nel 2019 a fronte di oltre 2.900 cause da gruppi, singoli cittadini, Stati, ospedali...) e un accordo da 4,5 miliardi di dollari che dovrebbero in parte andare a finanziare progetti di disintossicazione. «Totale corruzione – reagisce Goldin —: è un modo per evitare le responsabilità. Non sono i Sackler a fallire, ma solo la loro società. I giudici li hanno costantemente coperti».
Cambierà qualcosa con il trionfo inaspettato del documentario alla Mostra del Cinema di Venezia? Per cominciare «è stata una grossa sorpresa, molte persone – commenta la protagonista – sono rimaste scioccate che un documentario abbia vinto il Leone d’Oro. Ho visto la conferenza stampa e c’erano giornalisti turbati dalla scelta. La cosa più toccante per me è stata quando Julianne Moore ha detto che c’è stata unanimità tra i giurati; perché non c’è mai. Sono stata in molte giurie di festival cinematografici e non sono mai in accordo. Il fatto che abbiano deciso per il nostro film perché ne sono stati tutti commossi ha voluto dire molto per me».
Toccante è che a questo punto della battaglia e della carriera, a 69 anni compiuti il 12 settembre, due giorni dopo l’assegnazione del Leone, Nan Goldin abbia accettato di raccontare la storia dal principio. «Quando nel documentario è entrata Laura Poitras, regista nota e molto motivata, il progetto è cambiato. È stata lei a iniziare a interessarsi al mio lavoro e al mio privato, per capire come ero arrivata a questo punto della mia vita a diventare un’attivista nella crisi delle overdose». La frase che dà il titolo al film è tratta dal rapporto di un istituto psichiatrico sulla sorella Barbara, che si è tolta la vita quando Nan (allora Nancy) aveva 11 anni: «Vede il futuro, e tutta la bellezza e lo spargimento di sangue». È stato difficile aprire questo capitolo della sua biografia? «Non penso di avere una biografia senza mia sorella».
Il «terrore» di cui parlava, però, riguarda anche questo: Nan si è donata a Poitres autentica com’è, senza nessuna cautela. Che cosa teme? «Immaginavo questo film sullo schermo di qualche cinema, in pochi festival, ora lo vedranno moltissimi. Non temo che qualcuno possa ferirmi, sono spaventata per l’effetto psicologico che può avere su di me».
Una vasta distribuzione garantisce però un maggiore impatto. «Credo che il film avrà un ampio effetto politico sulla presa di coscienza del fenomeno, sulla capacità di parlare delle dipendenze e di discutere delle forme di riabilitazione». Tra le campagne di PAIN, c’è quella per l’accesso alla buprenorfina, nel ruolo che il metadone ha avuto per curare la dipendenza da eroina. I medici per poterla prescrivere devono sottoporsi a complicati corsi di aggiornamento, in più – spiegano dall’associazione – resta in America la convinzione che l’assuefazione si curi con l’astinenza, sul modello dell’alcolismo. Benché sia provato che gli oppioidi creano crisi insostenibili, che hanno bisogno di trattamenti specifici.
Le prossime azioni saranno dunque meno spettacolari e più profonde.«Stiamo lavorando sull’implementazione del programma di prevenzione delle overdose a New York (compresi i laboratori per analizzare le dosi mostrati nel film, ndr) – conclude Nan —. E soprattutto intendiamo monitorare dove andranno i soldi dei risarcimenti». Ancora non erogati.
Il successo avrà effetto sul suo lavoro? «Ho una grande retrospettiva che apre a Stoccolma alla fine del mese e la sto preparando da anni». Come a dire che nulla cambierà. Oppure no: «Per come è fatto il mio lavoro, ogni cosa lo condiziona». Tutta la bellezza di Nan Goldin.