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 2022  ottobre 01 Sabato calendario

Intervista a Francesco Permunian

Sono circa dieci anni che non vedo Francesco Permunian. Ho seguito però la sua produzione narrativa successiva a quel Il gabinetto del dottor Kafka, che mi incuriosì al punto da decidere di scovarlo a Desenzano sul Garda, dove tuttora vive e dove per circa quarant’anni ha svolto il mestiere di bibliotecario. Ricordo il viaggio in macchina: il nevischio che minacciava di trasformarsi in bufera e accanto a me, che guidavo, Mario Dondero incuriosito dal personaggio che, per non farsi mancare niente dello scrittore “maledetto”, si era fatto qualche annetto di manicomio.
Ah, grande Permunian, così infarcito della follia dei veneti e così generoso di disprezzo per la vita letteraria, da apparirmi unico e debordante. La sua ultima prova narrativa, Elogio dell’aberrazione (in uscita per Ponte alle Grazie) è una specie di sequel del Salò-Sade di Pasolini.
Coprofili incalliti, seduttori da strapazzo, provinciali infelici albergano in questo romanzo sghembo, cucito insieme con il filo del risentimento. Lui dice che non mi trova cambiato, io gli dico che quel pizzetto rado e bianco che si è lasciato spuntare addolcisce l’aria spiritata che lo avvolge.
Ha scelto, per il nostro secondo incontro, una cascina a San Martino della Battaglia. È quasi sera. Caldo, zanzare e un odore di memoria e di morti, perché qui ci fu lo scontro vittorioso con gli austriaci che decretò la fine della seconda guerra di Indipendenza. «Hai visto l’ossario?», mi chiede «è una torre che sembra un faro su un mare di campi e di vigneti. Ti ho portato qui perché mi piace la compagnia dei morti e del buon vino», aggiunge.
Che cosa sono, presenze, voci, cosa esattamente?
«Ombre, a volte acustiche, a volte semplici fantasmi della memoria. Mi assillano ma in un certo senso mi fanno anche compagnia. Non potrei scrivere senza la loro insidiosa presenza».
Un morto eccellente è Pasolini, che evochi nel tuo nuovo romanzo.
«Hai già lettoElogio dell’aberrazione?».
Sì.
«E dimmi, ti è piaciuto?».
Sembra la questua di un vanitoso.
«La vanità è una tarda conquista, come i reumatismi o gli affanni. Avrei dovuto pensarci due volte prima di scrivere il libro».
Perché?
«È come togliere il bavaglio ai miei demoni e sentirli urlare».
E dove sono questi demoni?
«Nella mia testa bacata, lubrificano le mie sfrenate passioni. Aberranti al punto da non poterle riferire in sede pubblica».
Ma tu lo fai.
«Ho scelto Pasolini come un Virgilio all’inferno. Per inseguirlo, fin dentro il suo ultimo film, ho letto Le 120 giornate di Sodoma del marchese de Sade».
Come ti è sembrato?
«È un referto patologico e monomaniacale. Dal punto di vista estetico è poco più di niente, ma dotato di una scrittura meccanica e crudele. Quando Pasolini annuncia che il suo sarà un film crudele, sta dicendo che la civiltà degli anni Cinquanta è stata uccisa senza alcuna pietà dal nuovo fascismo. Una volta chiesi a Zanzotto che cosa pensasse dell’opera di Pasolini.
Rispose che gli piaceva il Pasolini friulano, le cui poesie gli sembravano scritte con le ali di un angelo bruciato.
Questo mi disse».
Pensi che la sua morte sia stata ordita da qualche potente?
«Macché, erano solo dei marchettari ascrivibili al ceto sottoproletario, quello che, tragica ironia della sorte, Pasolini aveva idealizzato».
Ma perché un sequel di Salò-Sade?
«Ho scelto un personaggetto che inventa il seguito del film di Pasolini, un docudrama in chiave pop, meno opprimente ma altrettanto disgustoso. Più uno spettacolo umano è disgustoso e più sento montare l’eccitazione letteraria. Sono uno specialista in rovine umane».
Che cos’è aberrante oggi?
«La politica è aberrante, ma ancor di più quegli avanzi di società letteraria fatta di premi e premietti. La provincia è aberrante. Ma senza questa sbobba disgustosa non so se riuscirei a scrivere».
È così potente l’impulso alla scrittura?
«Non posso farne a meno. Anche se nel tempo è cambiato non dico il modo di scrivere ma quello di rapportare la scrittura al mondo. C’è stata una fase “lirica”, ovvero la poesia, prima della morte di mia moglie. Poi per reazione alla tragedia ho sottolineato l’aspetto sulfureo e grottesco della vita. Ora, a settant’anni compiuti, sono approdato a una specie di gelo, a un disincanto glaciale, a una follia che accarezza il nulla».
Resta il fatto che sei uno scrittore inclassificabile.
«Vivo di divagazioni e di cornici. Non me ne frega niente del plot o delle scuole di scrittura che prolificano come foruncoli fastidiosi sul viso ormai invecchiato di questa signora che chiamiamo letteratura. L’arte della divagazione l’ho appresa leggendo e rileggendo loZibaldone, lì c’è tutto e tutto parte da lì: Landolfi, Savinio, Manganelli, Ceronetti, in modi diversi, sono stati partoriti dal ventre leopardiano».
Sul versante straniero?
«Witold Gombrowicz e Tadeusz Kantor, quello de La classe morta, sono i miei dioscuri. E poi c’è Juan Rulfo: permanentemente in fuga dalla realtà, ma capace di tornarci come un Ulisse in una miserabile Itaca. Fu António Lobo Antunes a consigliarmi di leggerlo».
Hai conosciuto Antunes?
«Gli scrissi dal manicomio vicino a Desenzano, dove ero ricoverato. Antunes oltre che scrittore era medico e dirigeva l’ospedale psichiatrico di Lisbona. I suoi libri raccontano questa esperienza della malattia. E quando gli scrissi parlai della mia follia, di Saramago che aveva appena vinto il Nobel per la letteratura e di Pessoa.
Legga Juan Rulfo, mi rispose».
Hai spesso raccontato le tue vicende psichiatriche, penso a “I Calabiani”. Che ruolo assegni alla follia?
«Nella mia vita ha il palco d’onore, purtroppo. Sono nato nel 1951 a Cavarzere, poco prima dell’alluvione nel Polesine. Avevo pochi mesi e non ricordo nulla di quella comunità di disgraziati in fuga dalle acque.
Restai per due giorni e due notti in una cesta sugli argini del Po, in mezzo alle capre e alle galline e nonna Irma che cercava di scaldarmi dal freddo che mi trafiggeva. Aspettavamo che i miei genitori trovassero un riparo. E quella furia distruttrice del fiume, oltre a cancellare il mondo contadino, minò la mia salute fisica e mentale. So che il mio delicato equilibrio psichico si ruppe in quel momento».
Cosa ti dà la certezza?
«Ogni volta che torno nel Polesine mi sembra che affiorino antichi fantasmi. Sono nato in una casa lungo il fiume e da lì ho sentito arrivarmi le prime voci. Quell’ambiente familiare della mia infanzia è al tempo stesso il luogo del mio precoce dolore».
Eppure ci sei tornato con Mario Dondero.
«Quando siete venuti a trovarmi, una decina di anni fa, mi è sembrato che Mario fosse nella mia vita da sempre.
E in seguito gli ho proposto di visitare e fotografare i luoghi della mia infanzia. Vederli per quello che erano stati durante la guerra: luoghi della Resistenza. Mario era stato partigiano in Val d’Ossola e si lasciò attrarre da quell’idea che mi portavo dietro dai banchi del liceo. Mi disse solo: “Quando si parte?”».
Un altro fotografo è stato importante nella tua vita: Mario Giacomelli.
«Gli mandai alcuni miei componimenti poetici. Non avevo trovato nessuno che li pubblicasse. Glieli spedii su dei fogli spillati scusandomi per quel modo dilettantesco di presentarmi».
Perché proprio a lui?
«Avevo visto, in un catalogo, una serie di sue fotografie.
Raccontavano l’ospizio di Senigallia, e poi Lourdes e la vita e la morte dentro un mattatoio. Mi sembrava che quelle immagini straordinariamente crude appartenessero già da sempre al mio mondo. Non riuscivo a staccarmene, erano la mia ossessione. Nella convinzione, oltretutto, che nascessero dallo stesso estremo dolore che mi aveva spinto a scrivere poesie. Fu così che, mesi dopo quell’impatto visivo, decisi diinviargliele. Trascorse qualche settimana e una mattina giunse una sua lettera nella quale mi annunciava che avrebbe volentieri preso spunto da alcune di quelle poesie per un suo progetto fotografico».
Secondo te che cosa lo aveva attratto?
«C’era la condizione del disadattato che vedeva in me e che forse aveva visto in lui. Germano Celant commentando quel lavoro fotografico parlò di astrattismo del contenuto più che della forma. Come se quegli scatti, e i versi che li avevano ispirati, si fossero liberati della ingombrante materia umana. Vidi Giacomelli in tutto cinque o sei volte. Andavo a trovarlo a Senigallia. E a un certo punto capii che facevo parte della sua sperimentazione. Il mio dolore riviveva nel suo. Credo di aver toccato in quel momento la consapevolezza di che cosa fosse il mio lavoro poetico. A quel punto, per alcuni anni smisi di scrivere».
Cosa ti impediva di continuare?
«La sensazione che una fase della mia vita si fosse conclusa. Avevo smesso di scrivere poesie come si smette con la propria giovinezza. E dopo quel lungo intervallo di silenzio giunsi al racconto. Ancora una volta inviai a Mario le mie piccole prose pubblicate qui e là. Con grande sincerità mi disse che avrei dovuto fare ilpercorso da solo. Che non avrebbe avuto senso, per lui almeno, metterli alla base di un nuovo progetto fotografico. Mi ricordo che andai a trovarlo un’ultima volta. Fu affettuoso ma anche lucidamente conscio che tutto il grottesco e il visionario che avevo vomitato non avevano più niente da spartire con le atmosfere notturne dei miei versi. Ero entrato in una nuova fase della mia vita e me la sarei dovuta sbrigare da solo».
C’è qualcosa che lega le diverse fasi della tua vita?
«Se ci penso, e mi accade di pensarci spesso, arrivo sempre alla conclusione che tutta la mia vita sia stata una farsa. Un’ignobile farsa con due soli attori sulla scena e due soli spettatori: io e il Padreterno».
Ti piacciono le sfide estreme.
«Se qualcosa non è estremo non mi appassiona, come cerco di testimoniare anche nell’Elogio dell’aberrazione.
L’aberrante mi trasmette un senso di euforica esclusività. E tutto ciò che distorce la realtà è aberrazione».
Vuoi dire che leggere la realtà attraverso Dio è un modo per distorcerla?
«O forse per ricrearla. Se Dio fosse una voce per me avrebbe la forma della memoria. Vivo unicamente di memorie e di ricordi. Non sono un teologo né un credente. “Ho un’anima anticlericale e un cuore da monaco”, come scrive Renard nel suo Diario. È difficile credere in Dio quando si ha troppa confidenza con il clero. Mi piaceva, però, la postura millenaristica di Sergio Quinzio, il solo intellettuale italiano la cui fedecristiana non era inquinata dall’idea di progresso. La stessa letteratura, che ha preso in carico le virtù morali un tempo appannaggio della religione, crede nel ravvedimento. La mia letteratura, ammesso che ne esista una, si nutre della commediola umana. Degli scarti che la società produce. Al tempo stesso trovo del tutto normale rivolgermi alle grandi ombre letterarie del passato».
A chi pensi?
«A Landolfi e Manganelli. A Celati. Per fare dei nomi.
Non è la loro fama letteraria a catturarmi. Del resto pressoché inesistente. È che si sono rifiutati di vendere i loro prodotti come fosse carne in scatola. Ai miei occhi somigliano a scrittori di una religione preconciliare, quando il prete saliva sul pulpito e parlava dell’inferno e dei castighi. Poi smetti di crederci. Ma resta l’immaginazione provocata da quei momenti terrificanti. Un fantasticare che ha nutrito il loro sguardo e di conseguenza il mio. Un fantasticare senza mete né scopi. Dentro una forma distorta di scrittura che mi ha ossessionato e accompagnato per tutta la vita».