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 2022  ottobre 01 Sabato calendario

Il primo libro di Nabokov

Vita da émigré.
Russi fuggiti dopo la Rivoluzione d’ottobre, prima tappa la Germania. Da lì sognavano la fuga in Francia. Magari per fare i camerieri, come la coppia di aristocratici in Tovarich: commedia Usa del 1937 diretta da Anatole Litvak, ebreo nato a Kiev. Vladimir Nabokov a Berlino incontrò la futura moglie Vera, e scrisse in russo qualche romanzo.
Vita in camere d’affitto, «una pensione russa ma sgradevole». Una vedova aveva ridistribuito la mobilia nelle stanze dell’appartamento, seccata di non poter tagliare a fette anche l’enorme letto matrimoniale. Privacy, pochissima ( anche rispetto agli standard dell’epoca, molto diversi dai nostri: lo spazio e l’intimità guadagnati ora li spendiamo sui social).
Mašen’ka – diminutivo di “Maria”, semplicemente “Mary” nella versione inglese – è il primo romanzo di Vladimir Nabokov: ha 26 anni e lo dedica a Vera, da poco diventata sua moglie. Racconta di un primo e mai dimenticato amore, e nelle prime pagine il giovane espatriato Ganin lascia in malo modo l’amante Ljudmilla.
Ganin ha racimolato abbastanza soldi per andarsene da Berlino, ormai ogni cosa di lei gli risulta fastidiosa. Il caschetto biondo alla moda, con due strisce di capelli neri non rasati sulla nuca. Il tormentone: «Sai, io sono così sensibile che capirò subito quando non mi amerai più come prima». «Sparisci, donna, e addio» gli sembra l’unico modo per interrompere «l’uggiosa relazione». Troppo brusco anche per Klara che ascoltando le confidenze di Ljudmilla avrebbe preferito sentimenti più composti, «senza iris violetti e violini piangenti».
Ganin ha lavorato in fabbrica, ha fatto il cameriere e il rappresentante di brillantina. È andato in periferia «a vendere la propria ombra su un set cinematografico, come comparsa sotto le luci». Mašen’ka esce nel 1926, l’UFA era stata fondata nel 1917, nel calendario degli studi di produzione siamo traL’ultima risata di Murnau e Metropolis di Fritz Lang. Il giovane Nabokov sembra nutrire verso il cinema un certo sospetto: nelle ombre vede ildoppelgänger,ilDoppio delle paurose storie di E. T. Hoffman. Preferisce le scritte al neon della nascente pubblicità, accese e spente a intermittenza.
Alla pensione con Ganin – nome intero Lev Glebovi? – abita una varia e romanzesca umanità. La vedova affitta a due ballerini classici in cerca di scrittura. All’anziano scrittore Podtjagin che ha appena ricevuto il visto per Parigi ( se solo i tedeschi lo lasciassero partire). Alla prosperosa Klara che odia le sviolinate. Al fissato Alfërov, che all’inizio del romanzo rimane chiuso in ascensore con Ganin e lo racconta cercando di trovare un senso nel trascurabile incidente.
Viene interrotto dalla padrona di casa che annuncia «Pere cotte!». La Russia è lontana, la pensione è sudicia, il portiere ha il sonno pesante. La giovane moglie di Alferov sta per raggiungerlo, dopo 5 giorni di viaggio – la durata del romanzo, Nabokov conosceva bene l’arte dei luoghi e dei tempi.
Rileggendosi dopo quasi 50 anni, si scusa con il lettore per essersi comportato come fanno i principianti. Ha saccheggiato la propria vita. Non è necessario aver letto l’autobiografiaParla, ricordo ( un concentrato di piacere, anzi «un brivido tra le scapole» : a questo secondo Nabokov deve mirare la letteratura, non al cuore e neppure alla testa). I furti di paesaggi e i cambi di nome sono subito confessati. Con singolare effetto: la versione romanzata è «più inebriante rispetto al raccontoscrupolosamente fedele dell’autobiografo». Romanzo batte autobiografia uno a zero. Nabokov ne era convinto, la certezza rallegra la nostra vita da lettori. Giustifica il ricorso al privato solo «per sbarazzarsi di sé prima di passare a cose migliori». Lo farà da campione – oggi pochi scrittori sentono il dovere di lasciare l’autobiografia, al secondo libro e successivi.
Alfërov mostra la fotografia della moglie in arrivo. Ganin esce dalla stanza senza salutare. Ha riconosciuto Mašen’ka, il primo amore di un’estate russa. Sognata nel delirio febbrile di una convalescenza e poi incontrata. Qui un po’ di sviolinate anche a Nabokov scappano, poi torna acuto e preciso: «Chi si rade ringiovanisce un giorno ogni mattina: Ganin si sentiva ringiovanito di nove anni esatti».
Non sono ricordi frammentari: un ricciolo, un gita in bicicletta, qualche bacio. Sono ricordi articolati che accompagnano ivagabondaggi berlinesi. Ricorda di aver sognato Mašen’ka, prima di conoscerla: l’amore è una costruzione mentale. Neanche a Swann piacque Odette, quando la vide per la prima volta ( Marcel Proust era un altro grande architetto di amori e disamori).
Mašen’ka nel 1986 diventò un film diretto da John Goldschmidt. Nabokov era abituato meglio. Aveva vinto la sua diffidenza verso il cinema quando Stanley Kubrick nel 1962 girò Lolita, con Sue Lyon munita di occhiali a cuoricino. Nel 1964 ebbe una breve corrispondenza con il suo ammiratore Alfred Hitchcock ( sembra che la stima fosse reciproca). Il regista era scontento dei suoi sceneggiatori, capaci solo di adattare idee altrui. Voleva un narratore vero – uno storyteller, parola oggi ingiustamente in disgrazia – e proponeva un paio di soggetti. Nabokov rispose proponendone altri due. Fine dello scambio, entrambi avevano molto da fare.