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 2022  ottobre 01 Sabato calendario

Intervista a Zerocalcare

«Ok, dai. Stiamo andando a forzare un checkpoint iracheno guidati da Giancarlo Giannini che ha ingoiato un cocomero. Cosa può mai andare storto?» dice Zerocalcare in uno dei momenti più tragici eppure esilaranti del nuovo graphic novel intitolato No Sleep Till Shengal. Per capire: il «Giancarlo Giannini che ha ingoiato un cocomero» è una panzuta ma implacabile spia irachena che assomiglia come una goccia d’acqua al grande attore italiano e che accompagnerà forzosamente Calcare e il suo gruppo in buona parte del viaggio. Un viaggio oscuro per quello che è il racconto più drammatico, denso e complesso da lui mai realizzato. È la storia di un viaggio a Shengal, città irachena nella terra degli ezidi, dove nel 2014 cinquemila persone sono state uccise dall’Isis, centinaia sono morte di fame e di sete e più di seimila donne e bambini sono stati rapiti e ridotti in schiavitù. Questa parte è proprio un racconto nel racconto che si svolge all’interno della storia principale. Per evidenziarlo e sottolinearne la drammaticità le pagine sono bordate di nero.
Nonostante tutto ciò, Zerocalcare riesce a mantenere la sua cifra ironica con momenti davvero esilaranti quale quello qui sopra citato, per non parlare di uno straordinario Erdogan-Teletubby che a un ipotetico festival del Fumetto gli chiede: «Mi fai Ataturk che dice: “Annamo a pija il gelato?”», frase culto del suo cartoon Strappare lungo i bordi. L’alternanza dei diversi registri è perfetta così come il dipanarsi della storia e prodigiosa la velocità di disegno. «Dovevo finire in fretta ’sto libro perché le cose stanno precipitando: l’ho fatto in due mesi», racconta. Intanto, appena entrati nel luogo dell’intervista, Villa Medici, la sede dell’Accademia di Francia a Roma, ci viene incontro un pavone. Non è solo stupefacente, è un vero segno di qualcosa che non saprei definire: il pavone infatti è il simbolo degli ezidi, l’angelo Melek Ta’us. Una figura che rimanda al Shaytan del Corano e al Lucifero del Cristianesimo, motivo per cui questo popolo ha subito persecuzioni e massacri per tutta la sua storia. Una religione che nulla ha a che fare con l’Islam, più vicina allo gnosticismo, allo zoroastrismo e in generale alle culture preislamiche.
Perché “No Sleep Till Shengal”?
«Questo nuovo lavoro, già dal titolo è la prosecuzione ideale diKobane Calling che citava London Calling dei Clash mentre qui le citazioni sono due: No Sleep Till Belfastdi un altro gruppo punk, gli Stiff Little Fingers, che era a sua volta una cover di No Sleep Till Brooklyn dei Beastie Boys, mentre l’altro tema riguarda la difficoltà e le lunghe notti insonni per arrivare a Shengal».
Quando e come è avvenuto il viaggio?
«Nel maggio 2021 si è capito che bisognava accendere i riflettori su Shengal perché stava scadendo l’ultimatum dell’Iraq che voleva riprendersi quel pezzo di terra per ricondurlo alle sue leggi e anche la Turchia spingeva in quel senso minacciando altrimenti di bombardare. Era necessario dunque andar là per testimoniarlo».
Questa volta ti sei confrontato con il lato più oscuro di quel mondo, non solo per i difficili rapporti tra le parti avverse ma perché hai avuto a che fare anche con i servizi segreti…
«La situazione è molto complessa. In apparenza ci sono solo due schieramenti, ma in realtà c’è un sottobosco di spie, di interessi contrapposti, di influenze straniere che non capisci: in primis lo stato iracheno centrale e il Kurdistan iracheno che si contendono Shengal che a sua volta, in teoria, dovrebbe fare un referendum per decidere con chi stare, ma poi ci sono anche l’Iran e le spie turche. Essere catapultato lì da Rebibbia significa trovarsi di fronte a cose incomprensibili se non te le spiegano».
Perché il capo del primo posto di blocco per Shengal vi ha fatto entrare e il secondo no?
«Il primo, iracheno, voleva farci passare per spiare la nostra attività lì, il secondo, filo iraniano, invece non aveva interesse a farlo. Gli ezidi che poi ci hanno accolto davano invece per scontato che con noi sarebbe arrivata una spia, ma hanno lasciato fare perché sanno di dover avere rapporti con tutti».
A un certo punto i due si confrontano armi in mano.
«Sì e vince la spia irachena perché i filo iraniani, sciiti, capiscono che la priorità è spiare gli ezidi».
Cosa hai provato quando ti sei trovato tra la pistola della spia e i mitra degli sciiti?
«Mi sono reso conto che ero in balia di una situazione superiore alla mia capacità di intervento. Le autorità diShengal invece sono attori di quello scenario e quindi sono perfettamente in grado di gestirlo: una volta arrivati là eravamo in mani sicure. Il problema era arrivarci».
Molte donne e uomini ezidi si sono salvati grazie al movimento curdo che la Turchia considera “terrorista”.
«I primi che sono riusciti a rientrare a Shengal cacciando l’Isis e restituendo loro l’autonomia senza imporgli nulla sono stati quelli del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan, ndr).Gli ezidi poi hanno fatto proprie le idee dei curdi che ritenevano andassero bene anche per loro, tra cui la liberazione femminile».
Ora hanno truppe proprie?
«Fatte di uomini e donne: sono quelle che Iraq e Turchia vogliono sciogliere pretendendo che gli ezidi seguano le loro leggi difese dal loro esercito. Gli ezidi però sanno bene che quegli stessi eserciti li hanno massacrati».
C’è un capitolo del nuovo graphic novel davvero molto intenso: quello in cui si parla delle donne ezide violentate e rese schiave dall’Isis.
«Sì, è la cosa più terribile che ho dovuto affrontare: anche in Rojava le persone hanno vissuto situazioni drammatiche, ma qui si è consumato un trauma collettivo che io non avevo mai percepito altrove, come un fantasma che aleggia su tutti. La percezione di quello che è accaduto, stupri di massa, omicidi di massa, è tangibile, ed è in ogni discussione. Non è possibile astrarsi in nessun modo».
Proprio per questo abbiamo voluto usare per la copertina di Robinson l’immagine in cui tu entri nel luogo in cui tutto ciò è avvenuto.
«Quando sono entrato lì ho sentito una sensazione a pelle, un senso opprimente di ciò che si era consumato».
Ma tu poi al ritorno come ti senti?
«Mi sembra che le nostre preoccupazioni siano assurde, però è pure vero che il nostro mondo è questo e dobbiamo cercare di aggiustare le nostre vite qua. Certo, quello ti aiuta a mettere in prospettiva le cose».
E adesso che stiamo entrando in quello che potrebbe essere uno dei peggiori periodi della storia?
«Le elezioni non sono altro che la fotografia di qualcosa che già esiste e credo che questo sia un Paese in cui molte persone soffrono e altre vivono discriminazioni che probabilmente peggioreranno».
Il conflitto di classe esiste ancora?
«No, perché il conflitto verticale tra chi sta su e chi sta giù è stato sostituito da un conflitto orizzontale tra chi non ha niente e chi ha ancora di meno. Penso anche al segnale preoccupante degli arresti che ci sono stati a Piacenza contro il sindacalismo di base che poi il giudice ha definito illegittimi perché rientravano nelle canoniche forme della lotta sindacale».
Si è perso contatto con gli “ultimi”: cosa si può fare?
«Credo si debba ripartire dai bisogni delle persone e quindi ricominciare dai quartieri, dai servizi, dalla creazione di un tessuto solidale come è avvenuto in alcuni casi durante il Covid. Anche se non ho visto in questi anni degli attori in grado di farlo a livello nazionale. So che non è sufficiente, ma meglio di niente».
C’è una grande rabbia in giro. Da dove viene?
«Dal fatto che spesso si mettono in contrapposizione le cose. Per esempio i diritti sociali e quelli civili. C’è una sinistra liberal che porta avanti i diritti delle coppie gay e non dice niente dei lavoratori e viceversa, c’è chi parla dei diritti dei lavoratori trattando come “fuffa” la questione dei diritti di genere. Questa rivalità è stata devastante».
E i famosi “intellettuali”?
«Non trovo spunti originali che mi permettano di leggere la realtà in maniera illuminante oggi ed è una cosa che mi manca. E col Covid è venuta a mancare quell’intelligenza collettiva che esprimevano le persone stando insieme».
Secondo gli ultimi dati oggi l’1% della popolazione possiede il 45,6% delle risorse mondiali: ha senso?
«La questione della redistribuzione del reddito dovrebbe essere quella centrale visto anche che con l’automazione è inevitabile che ci sia una continua diminuzione di posti di lavoro. In teoria si dovrebbe lavorare di meno per evitare di lasciare la gente in mezzo alla strada. Ma mi sembra che si stia andando nella direzione opposta».
Del nuovo cartone su cui stai lavorando si può dire qualcosa? Almeno quando si potrà vederlo?
«Non lo so manco io».
Dietro l’ironia, questo lavoro ma anche la “favola” “A Babbo morto”, rivelano una grande asprezza.
«Lo so. Divento sempre più crepuscolare e senza speranza (sorride)».