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 2022  ottobre 01 Sabato calendario

Studiare il fascismo prima di parlarne

Il fascismo è l’argomento più studiato della nostra storia novecentesca, in Italia e nel mondo. Ma i risultati di queste ricerche restano fuori dagli spazi del dibattito pubblico italiano. Nel centenario della Marcia su Roma, un ricco volume a più voci curato da Salvatore Lupo e Angelo Ventrone tenta di colmare la distanza. Perché è anche nel deficit di conoscenza del ventennio nero – e delle tracce profonde che ha lasciato nell’età repubblicana – che ha origine la fragilità civile degli italiani. E comprendere Il fascismo nella storia italiana – così recita il titolo del libro di Donzelli – aiuta a mettere a fuoco le debolezze democratiche di oggi. “Il termine fascismo viene usato anche nel nostro tempo, fuori dalla sua storia”, dice Lupo, autore di saggi fondamentali sul ventennio. “Ovunque nel mondo serve a indicare i regimi dittatoriali di estrema destra e anche movimenti populisti autoritari. Perfino Joe Biden ha accusato la destra repubblicana di essere semi-fascista. Ma in Italia paradossalmente è diventata una parola tabù. Se uno di noi ne fa uso, rischia di fare la figura dell’interprete rozzo o di un vecchio attrezzo arrugginito della sinistra”.
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Professor Lupo, partiamo da una definizione del fascismo storico. Che cosa è stato?
"È stata la risposta alla crisi della democrazia liberale dopo un evento traumatico come la Grande Guerra. Il conflitto armato diventa un modello di governo della società, sia in pace che in guerra. Quando usiamo il termine totalitarismo intendiamo questo”.

La nozione di totalitarismo è stata molto dibattuta. Voi proponete l’idea di un totalitarismo in progress.
"Sì, l’idea del fascismo come un’esperienza storica che evolve per una sua logica interna, manifestandosi in tutta la sua natura soprattutto negli anni Trenta, quando intraprende una feroce politica coloniale nel Corno d’Africa, si dichiara razzista, perseguita gli ebrei e insegue dissennatamente la guerra mondiale. La guerra alla fine è l’unico modo in cui Mussolini e i suoi s’illudono di realizzare la rivoluzione”.

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Il vostro lavoro è articolato intorno a queste due categorie: modernità e rivoluzione. I fascisti si percepivano moderni e rivoluzionari. Ma lo stesso Mussolini avrebbe ammesso di aver fallito nei suoi propositi eversivi.
"Ammise il fallimento per i troppi compromessi con la monarchia, ma non rinunciò mai all’idea della rivoluzione, tanto da andarsi a suicidare in una prova sproporzionata rispetto alle sue forze: la guerra fu vista come l’unico modo per stabilire un ordine nuovo, mentre si sarebbe rivelata distruttiva per il Paese e per lo stesso fascismo. Da questo punto di vista l’idea di rivoluzione, seppure demagogica e irrealistica, restituisce tutta la dimensione tragica dell’esperienza fascista”.

L’ossessione di una rivoluzione tradita fu ereditata nel dopoguerra dal neofascismo.
"I reduci di Salò, riorganizzati nel Movimento Sociale, si portarono dietro il disprezzo verso i compromessi del regime, verso quei cedimenti alla Corona che ne avrebbero annacquato la natura dirompente. E, seppur minoritaria, questa componente politica fu l’unica capace di attecchire nel terreno nemico della Repubblica antifascista, proponendo un’alternativa antidemocratica in polemica con la destra conservatrice monarchica che aveva tradito il duce il 25 luglio del 1943”.

Ed è da questa tradizione neofascista che proviene la destra politica dominante nel nostro Paese. Oggi Giorgia Meloni dichiara di richiamarsi alla triade conservatrice Dio, patria e famiglia. In realtà da parte sua non c’è stata ancora una seria e rigorosa riflessione sulla propria famiglia politica.
"Questa torsione conservatrice rappresenta una forte novità rispetto alla destra di cui Meloni è figlia, un filone politico dichiaratamente radicale ed eversivo. A me pare che in Fratelli d’Italia siano finora sopravvissuti alcuni tratti della cultura politica neofascista come il nazionalismo, l’antieuropeismo, l’ostilità verso i paesi ricchi quali Germania e Francia”.

Tornando al fascismo storico, un tratto costante del “totalitarismo in progress” – tra colonialismo, razzismo, campagna antisemita, guerra – fu la violenza.
"La violenza è un elemento costitutivo del fascismo. Una violenza “chirurgica” – per usare una definizione di Mussolini – che doveva costringere il Paese ad avviarsi sulla strada della rigenerazione. L’ideologia dello squadrismo, che si manifesta fin dalle origini, è destinata ad accentuarsi nel corso del decennio successivo: basti pensare alle stragi in stile squadrista perpetrate in Etiopia dopo l’attentato a Rodolfo Graziani. Dopo il 1945 gli aspetti più radicali e violenti del fascismo scomparvero dalla memoria collettiva. Tutto fu banalizzato: dalle efferatezze della campagna razziale all’apparato totalitario del regime”.

Abbiamo rimosso anche la primazia italiana – rispetto alla Germania nazista – nella persecuzione degli ebrei. Francesco Cassata mostra bene come la nostra migliore burocrazia pubblica si sia adoperata per trasferire lo Stato nel territorio del razzismo. Come è stato possibile che un’intera classe dirigente, intellettuali inclusi, si sia piegata a una campagna vergognosa?
"Gli italiani erano fascisti, quasi tutti. Ma non tutti lo erano allo stesso modo. Fino all’accelerazione totalitaria, nei primi anni Trenta, c’è un margine di libertà nell’interpretare il fascismo: chi inclinava verso una variante monarchico-conservatrice, chi era cattolico e chi anticattolico, chi ipotizzava una sorta di comunismo in salsa fascista. Poi diminuisce il raggio di movimento e il razzismo ha la funzione di radicalizzare l’adesione degli italiani al regime. La strada indicata da Mussolini è questa? Allora bisogna seguirla. A tirarsi indietro furono in pochissimi”.

Che cosa ci portiamo dietro di quel ventennio?
"La Repubblica nata nel 1946 si portò dietro moltissimo: la legislazione, in qualche caso sopravvissuta fino a oggi, gli apparati di sicurezza, anche gli apparati repressivi. Il fascismo ha lasciato una traccia profonda anche nel sistema di governo dell’economia e nell’interventismo statale: pensiamo al ruolo esercitato dall’Iri. E non sottovaluterei la permanenza dell’idea del partito unico: larga parte delle relazioni tra i cittadini e lo Stato anche in democrazia è passata attraverso il partito e il sindacato. Il regime ereditò molto dall’Italia liberale e moltissimo ha lasciato all’Italia repubblicana, in una continuità che smentisce il celebre giudizio di Benedetto Croce sull’invasione degli Hyksos: il fascismo non è un corpo estraneo alla storia nazionale”.

Lei vede delle analogie tra la crisi della democrazia nei primi anni Venti del Novecento e oggi?
"Sì ci sono, anche se l’Italia modernizzata e laica di oggi non è quella d’un secolo fa. Il regime di Mussolini fu la risposta al collasso della liberaldemocrazia dopo la prima guerra mondiale e all’incapacità del cosiddetto “parlamentarismo” di garantire soluzioni di governabilità al Paese scosso da forti conflitti sociali e politici. Il fascismo si presentava allora come la forza nuova e moderna. Oggi, di fronte alla crisi delle istituzioni rappresentative, la soluzione innovativa viene individuata in un gruppo politico di derivazione postfascista”.

Il fatto di essere stati noi a inventare il fascismo ci espone più di altri paesi a rischi autoritari?
"Intanto non l’abbiamo inventato noi ma i nostri nonni. È vero che l’Italia ha inventato il fascismo, in minima parte l’ha anche esportato. Ma questo non vuol dire che ci sia un fascismo eterno che covi sotto la cenere. Il nostro Paese ha fatto anche la storia dell’antifascismo. È innegabile che alcune fragilità interne affiorino e forse in futuro affioreranno ancora di più. Come cittadini dobbiamo stare attenti a non buttare via il bambino con l’acqua sporca: le nazioni devono sapere sotto quali tutele costituzionali possono riposare tranquille”.