Corriere della Sera, 30 settembre 2022
Il senso della traduzione
La traduzione afferra alla gola la vita. L’ha raccontato una volta per sempre Borges nella sua parabola La ricerca di Averroè, in cui la traduzione diventa il senso (o il non-senso o la difficoltà di senso) della vita stessa. Nel racconto il grande Averroè sta cercando di tradurre dal greco di Aristotele la parola «tragedia». Ma egli non può capire quella parola, capire cosa dice, perché la cultura musulmana non conosce il teatro, anche se proprio sotto la finestra della sua casa alcuni bambini arabi stanno giocando e uno fa il muezzin, l’altro il minareto e un altro il credente che prega – ossia fanno teatro. Tradurre diviene così la metafora dell’impossibile ricerca dell’assoluto, anche di quell’assoluto che ci sta quasi sempre davanti agli occhi senza che si riesca a vederlo.
Quale traduttore, posso parlare soprattutto della mia esperienza di traduttore di teatro, in particolare di testi teatrali tradotti in vista della loro concreta messinscena, pensando ai personaggi, agli attori e alle attrici che avrebbero detto, avuto nella loro bocca e nell’espressione del loro viso le parole che avrei scritto. Le ganasce di Tino Buazzelli…, l’attore che per me si identifica con la mia esperienza di traduttore teatrale, anche perché la mia prima versione per il teatro – Un nemico del popolo di Ibsen, nell’eccellente regia di Edmo Fenoglio – ruotava intorno a lui.
La traduzione di testi che dovevano essere rappresentati – e di cui ho seguito le varie prove, che ho visto dunque nascere e trasformarsi sul palcoscenico – è stata fondamentale per il mio rapporto con la traduzione in sé e forse anche per il mio scrivere in generale. Si trattava di testi destinati non solo alla lettura ma anche e soprattutto allo spettacolo, al palcoscenico; scritti dunque, in certo senso, pure dal regista che avrebbe dato loro un volto nuovo, e dagli attori che avrebbero declamato le parole che io scrivevo pensando al ritmo della recitazione, del dialogo e delle battute, ai gesti che le avrebbero accompagnate. Il teatro è certo un testo da leggere, ma anche e soprattutto da vedere, ascoltare: l’odore del palcoscenico, i corpi che lo attraversano, i volti, le voci, i gesti, le luci.
Questo vale soprattutto per alcuni testi compresi nel volume, quali Un nemico del popolo, Spettri e John Gabriel Borkman di Ibsen, il Woyzeck di Büchner, La bella Galatea di Poly Henrion, la Medea di Grillparzer, opera nella quale la parte di Creusa è stata tradotta splendidamente da Maddalena Longo. Vale in misura minore per i testi di Schnitzler, La Contessina Mizzi, Al pappagallo verde, Le sorelle ovvero Casanova a Spa, perché in questi casi non ho seguito la preparazione dello spettacolo e non ho avuto occasione di confrontare la mia versione con le diverse fasi delle prove che le davano vita concreta nella messinscena al teatro di Genova. Per quel che riguarda la mia storia personale, un’esperienza fondamentale è stata la traduzione del Woyzeck, con quelle sciabolate che tagliano la parola e la vita.
Anche i miei testi teatrali – Stadelmann, Le voci, Lei dunque capirà, Essere già stati, La mostra – non sarebbero nati senza l’esperienza del tradurre. In particolare La mostra ha posto problemi pressoché insolubili alle versioni in altre lingue. Un coro babelico al di qua o al di là della parola, tra l’afasia e il furore, voci e canti che si infrangono nella follia e nel non-senso di dolci e sinistre filastrocche d’infanzia, fuga dal e nel delirio. Problemi pressoché insolubili ma felicemente superati, come dimostrano – ma sono solo un esempio tra gli altri – la versione in spagnolo di Juan Octavio Prenz e quella in tedesco di Hanno Helbling, grande traduttore anche di classici moderni e contemporanei, il quale, dopo aver letto il testo in italiano (si fa per dire, in italiano), scrisse all’editore tedesco: «Un testo intraducibile. Lo tradurrò».
L’autore al centro della mia passione per il teatro è Ibsen, spartiacque ancor oggi insuperato nella drammaticità che ha assunto, e continua ad assumere, il lacerato sviluppo della modernità cui assistiamo, in forme sempre diverse e sempre più paradossali. Maria Fancelli ha scritto che, tra i grandi autori che mi hanno formato nel senso più profondo, c’è proprio Ibsen – del resto Trieste, con Slataper e non solo con Slataper, è stato un centro, un cuore pulsante della presenza di Ibsen nel moderno e nel contemporaneo.
Ibsen ha espresso come pochissimi altri anche il drammatico itinerario dalla libertà e dalla democrazia al totalitarismo, che la assorbe senza che nemmeno sia possibile accorgersi della mostruosa identità che stanno assumendo, ancora e sempre più oggi, il popolo e i nemici del popolo, la vita vera e la vita falsa, la vita e la morte.
Morire, risvegliarsi, come dice l’ultimo testo di Ibsen, quando noi morti ci destiamo. Morire alla vita che si è condotta e questo vale, su scala sempre più vasta, per gli individui, per le culture, per le varie e contraddittorie arti del potere, spesso inconsapevolmente solidali. Anche se l’ultima, e a suo modo salvifica, parola di Ibsen resta quella che egli ha detto sulla megalomania della vita e della pretesa di vivere autenticamente e insieme sulla necessità, ancorché impossibile, di questa megalomania.
Alle mie versioni di Ibsen, certo, si può e si deve fare una radicale obiezione. Non ho tradotto quei testi dal norvegese, ma dalle traduzioni tedesche. Vero è che sono esse ad avere dato inizio al trionfale percorso di Ibsen in Europa. Mi sono pure fatto aiutare dalle recensioni d’epoca di quegli spettacoli e da Hans Erich Lampl, un amico che, arrivato dall’Europa centrale, viveva da anni a Oslo ed era un grande conoscitore dell’opera di Ibsen e anche di Slataper studioso di Ibsen – sostanzialmente anche lui costretto a leggerlo attraverso traduzioni.
Scienza e/o arte della precisione e forse della sua impossibilità, l’avventura del tradurre può assumere aspetti estremi che sfidano la fantasia e i limiti della finzione letteraria sino a diventare, anche bizzarramente, oggetto a sua volta di finzione o semi-finzione letteraria.
Un esempio singolare è il caso di Lin Shu, erudito, pittore e calligrafo cinese studiato da Mikaël Gómez Guthart. Lin Shu praticava la traduzione come una ricreazione totale delle opere della letteratura universale, traducendole, con l’aiuto di molti collaboratori, da altre traduzioni cinesi; in questo modo ha fornito un vasto repertorio in cinese della letteratura universale, in quanto, senza conoscere egli stesso il francese, il russo o lo spagnolo, ha fatto leggere ai cinesi – nelle versioni composte con l’aiuto dei suoi assistenti che conoscevano la lingua originale di quei testi – Balzac, Cechov, Shakespeare, Tolstoj e molti altri grandi.
Lin Shu non si proponeva soltanto di conoscere e di far conoscere alla cultura cinese la letteratura universale, ma anche di far emergere, sia pure indirettamente, la sconcertante universalità di ogni lingua e di ogni opera: la traduzione non avrebbe soltanto reso accessibili testi fondamentali, ma avrebbe pure arricchito l’intrinseca pluralità di ogni testo.