Corriere della Sera, 30 settembre 2022
La legge che può cambiare il web
Hb20. La legge varata un anno fa dal Parlamento conservatore del Texas per imporre ai big delle reti sociali di non filtrare i contenuti immessi in rete nello Stato sembrava astrusa come la sua sigla e lontana dagli interessi del resto del mondo. La battaglia giudiziaria che si è scatenata da allora e che sta per arrivare alla Corte Suprema rischia, invece, di far diventare quella norma il fattore scatenante di un cambiamento drastico di quanto oggi vediamo su Internet. I giganti digitali colpiti da Hb20 (soprattutto Facebook, Twitter e YouTube) hanno fatto ricorso sostenendo che i legislatori – repubblicani convinti che siano censurati prevalentemente contenuti immessi in rete dalla destra – vietando alle reti sociali di usare il filtro dei loro moderatori, violano una libertà fondamentale riconosciuta dal Primo emendamento della Costituzione e, soprattutto, trasformeranno il web in un pozzo nero di contenuti orrendi, dal terrorismo alla pedopornografia.
In prima istanza i tribunali hanno dato loro ragione sospendendo l’applicazione della legge ma, mentre anche la Florida, altro Stato a maggioranza repubblicana, adottava una legge simile, la Corte d’appello si è espressa per la piena legittimità di Hb20, liquidando come gonfiati i timori di un web, peraltro già piena di contenuti infami, che diventa immondezzaio. La legge, varata per un impulso ideologico e la volontà di colpire chi aveva sospeso gli account di Donald Trump dopo l’assalto al Congresso del gennaio 2021, in realtà avrà davvero effetti allarmanti: basti pensare che è stata votata dopo aver respinto emendamenti (democratici) che prevedevano di escludere dal divieto di filtraggio il terrorismo, la negazione dell’Olocausto e la disinformazione sui vaccini. E, quando si pronuncerà la Corte Suprema, le conseguenze andranno ben oltre il Texas.
Ma i big digitali pagano oggi decenni di scelte contraddittorie: prima hanno difeso il principio della loro totale irresponsabilità per i contenuti immessi in rete, sostenendo di essere dei semplici collettori, geneticamente diversi dagli editori che gestiscono media company e che scelgono cosa pubblicare. Poi, davanti all’invasione di contenuti immondi, hanno cominciato a filtrare, sostenendo di avere il diritto di fare scelte discrezionali: l’ammissione di essere media company. Ora sta arrivando la resa dei conti.