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 2022  settembre 29 Giovedì calendario

Giorgia Meloni è l’influencer-in-chief di tutti noi

Al video ci ho pensato dopo, quando ieri è arrivata nelle redazioni una letterina con cui l’avvocato di Giorgia Meloni intimava di non braccarne la figlia per fotografarla o riprenderla. Al video in quel momento presente sulla homepage d’un grande quotidiano, in cui un giornalista filmava una seienne che entrava a scuola, perché quella seienne è la figlia della prossima presidente del consiglio, e in un paese senza star system ci si arrangia come si può.


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Anche a «Sono Giorgia, sono una madre, sono cristiana» ho pensato dopo: sì, va bene, era elettoralmente madre e quindi se l’era cercata, come quelle con la minigonna. Ma io tenderei a non prendere troppo sul serio gli slogan. In generale, eh: non lo dico per sminuire la fede religiosa d’una tizia che vive nel peccato.




La prima cosa cui ho pensato è stata la settimana bianca del 1993. Quando Harry aveva otto anni e William dieci, e Diana Spencer proprio non capiva perché i paparazzi non stessero ai patti di fare le foto in posa al mattino e per il resto della giornata lasciarli sciare senza braccarli. Proprio non capiva perché, se gli dai un amuse-bouche, le belve vogliano comunque sbranarti.


La prima cosa che ho pensato è stata: ma Giorgia Meloni, da Diana Spencer, non ha imparato niente? Giorgia Meloni che lunedì ha pubblicato su Instagram il biglietto della sua bambina che, ci ha spiegato il padre in un’intervista di ieri a Candida Morvillo, ha capito solo che la mamma ha vinto qualcosa (ha sei anni, spero non sappia cos’è un governo). Giorgia Meloni la cui agiografia, sul numero in edicola di Chi, riporta che sabato scorso ella l’ha trascorso «in mezzo agli amichetti scatenati della sua bimba che festeggiava (in ritardo) il compleanno».




Forse Giorgia Meloni, come tutte le popstar all’inizio d’una carriera rutilante, pensa che, tra lei e la fama, il controllo ce l’abbia lei. Forse pensa che, ai rotocalchi, il diritto d’accesso alla sua vita privata lei glielo dà e lei glielo toglie. Non funziona così. Lo spiegava benino William, il primogenito di Diana Spencer, in un documentario di cinque anni fa, dopo averci detto che tutte le volte che aveva visto la madre piangere era colpa dei paparazzi.


Puoi essere il figlio della più gran manipolatrice dei media che la storia d’occidente abbia conosciuto, che è stata però anche la più clamorosa vittima dei media, ed essere abbastanza lucido da vederne la complicità, e tuttavia compatirne i limiti e le conseguenze? Forse sì.


«Harry e io quella situazione l’abbiamo vissuta, e una lezione che ho imparato è che non devi mai lasciarli avvicinare troppo, non devi mai lasciarli entrare, perché poi è complicato convincerli ad allontanarsi. E sei tu che devi mantenere le distanze e alzare muri di cinta, perché se passi la soglia, se una qualunque delle due parti sconfina, poi ne derivano molti problemi e molto dolore».


È un problema centuplicato, rispetto a quando William era in settimana bianca e sua madre, la donna più famosa del mondo, trasecolava perché i paparazzi non li lasciavano in pace se andavano in giro per negozi. È un problema centuplicato perché ora non ti serve una troupe – abbiamo tutti un cellulare con fotocamera: anche io, anche voi, anche il giornalista che ieri seguiva la figlia della Meloni fuori da scuola – e perché la fama è più che mai valuta corrente, in un’epoca in cui siamo tutti famosi.


Tutti, anche i più insospettabili, cercano di arginare l’esposizione. Se vedete Leone Ferragni con una felpa pixelata nei video della madre e del padre, non è perché lì sotto c’è uno stilista che non ha sotto contratto i genitori: è perché lì sotto c’è il logo della scuola privata nella quale fa l’asilo, e che i genitori s’illudono di mantenere ignota, per evitare l’assedio dei paparazzi fuori dal cancello.


Di Leone Ferragni non c’è esattamente carenza d’immagini: il fatto che stia su Instagram tutti i giorni è un deterrente o un moltiplicatore d’attenzione dei fotografi professionisti? Come funziona la fama? Le foto del bambino che tutti hanno già visto in foto sono inflazionate, o quel bambino strafotografato è più famoso e quindi valgono di più? Non lo sa nessuno, chi trova la formula matematica della fama forse vince il Nobel per la pace.


«“Guarda, c’è la bandiera di mamma!” hai detto un giorno, indicando un tricolore, mentre ti accompagnavo a scuo­la. Avevi poco meno di tre anni, e da allora non hai mai smesso di ripeterlo». Sono le prime righe delle tre paginette finali di Io sono Giorgia, autobiografia con cui Giorgia Meloni si è candidata un anno fa a essere l’influencer-in-chief di questo disastrato paese in questo disastratissimo tempo, centoquarantamila copie finora (prevedo imminenti ristampe). Tre paginette intitolate «a Ginevra», la bambina che ha diritto a una vita privata.


È difficile immaginare Golda Meir scrivere, in un’autobiografia pubblica ma pure in un diario col lucchetto, «Certe notti mi stendo accanto a te, mentre dormi, e ti sussurro all’orecchio: “La tua mamma è qui”, come se volessi farmi perdonare per le ore in cui non ci sono stata durante il giorno. Il senso di colpa nei tuoi confronti non mi abbandona mai, Gì, come il terrore di non essere la madre che avrei dovuto».


È difficile trovare, nei secoli di storia che hanno preceduto questo, un tempo in cui coloro che di mestiere fanno la politica fossero chiamati ad aprirci il loro cuore, le loro fragilità, le camerette dei loro figli. Persino Ronald Reagan, che era stato un attore, al massimo si faceva fotografare con Michael Jackson, o mentre potava i fiori. Sì, John Kennedy lo fotografavano col figlio sotto alla scrivania, ma era perché erano belli, mica per dirci che gli raccontava le fiabe prima di dormire. Era per rimarcare distanza con l’elettorato brutto e povero, mica per stimolare immedesimazione.


È anche difficile immaginare un presidente del consiglio della prima repubblica che, invece di chiamare i direttori, fa scrivere dall’avvocato; ma la non commistione coi poteri forti è un tratto caratterizzante la nuova classe dirigente, almeno quanto lo è il raccontarsi come genitori assai prima che come ideologi. E poi Diana coi direttori ci parlava tantissimo, e non è comunque finita bene.