La Stampa, 29 settembre 2022
Intervista alla poetessa Mariangela Gualtieri
Tra le perle di Fuoriclassico, il festival sul tema della natura che si tiene questo weekend al Museo archeologico di Napoli, c’è il "rito sonoro" di una delle voci poetiche contemporanee più apprezzate, Mariangela Gualtieri, che domani sera leggerà alcune poesie dal suo libro Paesaggio con fratello rotto (Einaudi).
Nella prefazione lei scrive: «Siamo chiamati tutti a difendere ben più di patria e libertà… siamo pericolosamente sporgenti su un declino di specie». A cosa si riferisce?
«Penso alla rottura dell’equilibrio climatico, al danno madornale che la nostra specie sta arrecando all’intero pianeta. Stiamo rendendo inabitabile questa terra per noi stessi e tutto questo senza evidenti segnali di scelte politiche che tentino di invertire la rotta».
Nella stesso libro suggerisce di «tornare ai greci». È l’unica soluzione?
«Non credo ci sia un modello, perché tutto sta accadendo per la prima volta. E non penso ci sia un’unica soluzione. Comunque non vorrei tornare ai greci, soprattutto come donna: non credo se la passassero bene».
Scrive ancora «ci vogliono maestri e maestre» e li intravede nei giovani che si impegnano per l’ambiente. Sono loro la speranza?
«I giovani sono sempre una speranza e questi per me lo sono particolarmente. Poi però penso anche che la giovinezza non sia solo un fatto anagrafico».
La sua poesia Bello mondo tratta da Le giovani parole (Einaudi) è stata letta da Jovanotti a Sanremo ed è diventata pop. Si ritrova in questa dimensione?
«È stata la dimensione di un momento e mi sta bene. Se la poesia è tale non dovrebbe temere niente. Mi ha convinta il modo delicato in cui Jovanotti è riuscito a creare una bolla di attenzione acuta alla parola, in un contesto così frastornante. Gli sono grata».
I suoi versi sono spesso teatrali, da leggere al microfono come spiega ne L’incanto fonico (Einaudi). C’è differenza tra una poesia ad alta voce e una più intima o tutta la poesia può essere declamata?
«Credo che nessuna poesia goda nell’essere declamata e parlerei piuttosto di dare forma orale alla poesia. Il microfono permette appunto di recitare una poesia come se la si dicesse all’orecchio di qualcuno. Non tutte le poesie reggono bene l’oralità, ma di certo ci sono migliaia di poesie che aspettano la nostra voce, aspettano di rivelarsi nella loro energia sonora».
Nella mancanza di poesia che ci circonda ogni tanto si sente dire «Questa è una poesia» riguardo a qualcosa di bello. La poesia è solo quella in versi classificata come tale o è anche altro?
«La poiesis era per i greci il fare come espressione, legato alle arti, ispirato sotto l’egida delle Muse, lì dove sono evidenti sia la vocazione che il dono. È forse il riconoscimento di quel particolare stato di grazia che non riguarda solo il verso, ma ogni espressione umana».
Cosa è per lei la poesia?
«Posso solo citare Paul Celan: "Le poesie sono doni, doni fatti agli attenti, doni che implicano destino". Queste parole mi trovano pienamente consonante».
Con il regista Cesare Ronconi quasi quarant’anni fa avete dato vita alla compagnia teatrale Valdoca. Cosa vi proponevate allora e cosa è cambiato nel tempo?
«Avevamo l’urgenza di creare un ambito di lavoro concentrato, permanente e aperto agli affini che avremmo incontrato lungo il cammino. In questo senso nulla è cambiato, il Teatro Valdoca resta per noi terra feconda, ispirante e accogliente. È certo cambiata la nostra maturità artistica e pedagogica: siamo più leggeri, più liberi, più impavidi e più amorosi».
Il poeta Milo De Angelis dice che la sua poesia ha qualcosa di interrogativo, più Leopardi che Montale. È così?
«Forse sì, credo pienamente a Milo, che considero mio maestro. Negli anni però mi sento sempre più vicina a Pascoli e a Campana: trovo nei loro versi un sapore famigliare».
Quali sono i poeti italiani indispensabili per lei?
«Posso citare quelli a cui torno più di frequente in questo periodo: Dante, Campana, Pascoli, Ungaretti, Rosselli, Rebora, Pavese, Luzi, Sereni, Fortini e fra i viventi De Angelis, Lamarque, Anedda, Bre, Dapunt, Mancinelli, Candiani, Travi».
E quelli esteri?
«Anche qui sono dolori, per i troppi taciuti. I più frequentati ora sono Holderlin, Hopkins, Dickinson, Thomas, Eliot, Rimbaud, Rilke, Herbert, Milosz, Sachs, Celan e Zagajewski».
Moravia per ricordare Pasolini gridò: «È morto un poeta». C’era in quella frase un’idea di vate della nazione. Da allora la poesia ha perso centralità?
«Non penso. Era l’energia davvero gigantesca di Pasolini a porlo spesso al centro del pensiero, e anche i molti campi espressivi in cui si muoveva con eccellenza. Mi sembra ci sia un immenso bisogno di poesia e lì dove viene data con cura, mi pare arrivi sempre e ovunque tantissima gente attenta e grata».