Corriere della Sera, 29 settembre 2022
Manuel Agnelli esordisce da solista
Manuel Agnelli odia la parola «progetto». La vive come una gabbia alla libertà creativa. Il concetto ritorna spesso nei suoi discorsi. Anzitutto quando spiega «Ama il prossimo tuo come te stesso», debutto solista dopo 25 anni di rock indipendente con gli Afterhours (esce domani). «Non è un progetto: non mi sono svegliato un giorno dicendo “faccio il disco solista”. In lockdown non potendo incontrare nessuno e avendo tempi dilatati mi sono messo a fare musica senza aspettative, come da ragazzo. Ho suonato tutti gli strumenti, compresi degli utensili casalinghi, e quando ho provato a far intervenire dei musicisti venivano normalizzate».
Lo preoccupa pure il solo sospetto che ci possa essere un «progetto» attorno ai Måneskin, di cui è stato coach a X Factor. Lo spiega commentando le dichiarazioni post-elettorali di Damiano («Oggi è un giorno triste per il mio Paese»): «Loro funzionano per motivazioni magiche e non per dei progetti fatti bene. Capisco che dei ragazzi così giovani vengano tirati per la giacchetta e magari non se ne rendono conto, ma avrebbero bisogno di qualcuno attorno che si prenda delle responsabilità». Attenzione, non è una critica alla posizione politica di Damiano: «Sono sempre stato di sinistra. Questa è l’occasione per ricostruire un’identità su una visione che sia contenuto e non solo vittoria elettorale».
La parola travolge anche gli Afterhours, band di cui è leader e che ha segnato il rock in italiano a cavallo del millennio. «Sono un progetto e non una band di amici che vive insieme. Siamo un meccanismo talmente oliato che rischiavamo di dare tutto per scontato. Per questo facevamo dischi solo quando avevamo qualcosa da dire e così sarà in futuro, non solo per convenienza, perché siamo un brand». Lui stesso ha rischiato di trasformarsi in un marchio, il giudice cattivo, l’alternativo a tutti i costi. «Per questo me ne sono andato dalla tv più di una volta, per non diventare il cartonato di me stesso, un pupazzo». Non ha mai ceduto alla tentazione di approfittare della visibilità. «Non so fare canzoni paracule, non faccio musica per il consenso che oggi sembra essere l’unica cosa che conta. Vedo ragazzi che scrivono per fare numeri, una catena di montaggio». Titolo evangelico («Sembra una frase retorica, ma è ancora potente perché, non essendo stata applicata, non si è mai consumata»), nel disco si sente la storia degli Afterhours, ma anche un approccio diverso. «In una band scrivi partendo dal suono di ciascun musicista. Qui sono partito da zero, in totale libertà. C’è molto pianoforte, usato come elemento ritmico, che ho ripreso dagli studi classici. E comunque col gruppo le canzoni erano mie all’80%. Mi dava fastidio essere considerato il canzonettaro, solo perché sul palco suonavo la chitarra acustica, e gli altri erano i terroristi del noise». A dimostrare che l’impatto sonoro è nel suo dna ci pensa alla fine della presentazione al teatro dei Filodrammatici. Un set tirato, i decibel che spettinano, con Little Pieces of Marmelade, Beatrice Antolini e Giacomo Rossetti che lo accompagneranno nel tour in partenza il 3 dicembre. A primavera ci sarà l’impegno di Lazarus, musical ideato da Bowie: «Il teatro è un’esperienza nuova e diversa. Non è revival, ma un progetto contemporaneo». In mezzo resta un buco per Sanremo... «Dipende dai soldi... Comunque non in gara, l’ho già vinta con i Måneskin».
«Milano con la peste» è una ballad con piano e archi sullo sfondo del lockdown: «Canto di una patologia collettiva che c’era prima e della speranza che si possa cambiare, nella direzione che abbiamo visto all’inizio della pandemia quando le persone sembravano più vere e attente ai valori». Alla guerra in Ucraina è dedicato il noise di «Severodonetsk»: «Si parla troppo di geopolitica e non di diritti umani e vite spezzate». «Pam Pum Pam» ha un che di anni 60: «Sembra Aznavour», ride. «Proci» picchia duro sugli amici che ti rubano la donna e il vino... «È un ritratto della scena alternative italiana, asfittica e fascista, piena di regole messe da chi senza quel ruolo non avrebbe rilevanza, e dell’intellighenzia di Milano e Roma, una classe intellettuale inetta che viene da 30 anni di destrutturazione culturale».