Corriere della Sera, 28 settembre 2022
Intervista a Brunello Cucinelli
Perché quella volta aggiunse una generosa dose di Guttalax nella merenda del suo compagno?
«Avevo 15 anni, frequentavo il terzo anno di geometra e al mio compagno, che era spesso vittima di scherzi e oltretutto aveva perso la mamma da poco, gli avevano rubato la merenda di nuovo. Siccome non era molto ricco, presi a cuore la faccenda, così chiesi a mia madre di prepararmi quella mattina una merenda in più, la innaffiai di lassativo e dissi al mio compagno: vediamo se anche oggi te la rubano... e capiremo pure chi sono i ladri».
E gliela rubarono?
«Certo! Ma poi, quando alcuni di loro cominciarono a chiedere ripetutamente all’insegnante il permesso per andare al bagno, potemmo individuare i ladri... e al mio compagno la merenda non venne più rubata».
Brunello Cucinelli, il noto stilista e imprenditore del cachemire, il 30 settembre sarà protagonista al Museo M9 di Mestre, per il Festival delle Idee ideato e diretto da Marilisa Capuano, per raccontare il suo capitalismo umano. Essendo nato contadino, è uno che va al sodo. «Per difendere il mio compagno, non avrei potuto fare altrimenti. Frequentavamo una scuola dove c’erano le classi per i cittadini e quelle per i contadini come noi che eravamo molto riconoscibili: vestivamo da campagnoli e parlavamo in dialetto. Oggigiorno è più difficile distinguere tra città-centro e periferie, perché tutti usano un po’ gli stessi vestiti, posseggono gli stessi telefonini, computer... non ci sono più grandi differenze».
A proposito di vestiti, perché non le piacque quel paio di pantaloni di velluto verdi che le regalò sua madre a Natale?
«Avevo 7-8 anni e all’epoca non capivo perché non mi piacessero, tanto che istintivamente li sotterrai: sono ancora là dove li nascosi. Da grande, ho scoperto il motivo per cui non amo il verde. Un famoso proverbio dice: chi di verde si veste, di beltà sua troppo si fida. E infatti, questo colore va bene se sei abbronzato e se hai i capelli scuri, ma se sei biondo e chiaro di carnagione, meglio altri colori».
Da ex contadino di Castel Rigone a imprenditore «filosofo» che esporta in tutto il mondo, il passo non è breve. Come ha fatto?
«Essere definito “filosofo” mi rende orgoglioso, ma io ho imparato cosa sia la bellezza tirando il carro dei buoi. In una famiglia contadina, com’era la mia, ognuno aveva il proprio ruolo e ogni compito veniva assegnato in funzione dell’età. La nonna si dedicava alla cucina, il nonno curava il pollame, mia madre badava a noi figli, mentre il babbo, un tipo robusto, era addetto ad arare la terra con l’aratro e io, bambino, dovevo fare in modo che i buoi andassero ben diritti. Lui mi ripeteva che i solchi dovevano essere bene allineati perché erano più belli, associandosi all’armonia del creato. Negli anni Sessanta, ci trasferimmo alla periferia di Perugia perché il babbo aveva trovato un lavoro in fabbrica: il suo sogno era fare l’operaio e avere un salario mensile. Dalla sera alla mattina ci trovammo in casa un televisore, il bagno e persino l’acqua calda, anche se la pace della campagna era svanita. E l’entusiasmo di mio padre per la nuova occupazione venne ben presto smorzato. Il lavoro era molto duro, lui non si lamentava per questo, ma veniva umiliato. E vedere quest’uomo con gli occhi lucidi, le mani screpolate, fu un profondo dolore. Allora mi sono detto: non so cosa farò nella vita, ma cercherò un riscatto di tale umiliazione. Nella mia azienda ho adottato dei principi nel rispetto della dignità umana».
Nobile principio, ma dal tirare i buoi in che modo è approdato all’alta moda?
«Perché a Perugia conobbi una ragazza, Federica, che cominciai a corteggiare ed è tuttora mia moglie: aveva un negozietto di abbigliamento, in particolare maglioni, e da lì parte la mia passione per il cachemire colorato, essendo affascinato da Benetton. Volevo creare un prodotto italiano di qualità per gente danarosa...».
Era attirato dal lusso?
«È una parola che non amo ma, volendo creare un prodotto artigianale di pregio, era costoso e dovevo rivolgermi a un pubblico abbiente. Però, all’epoca, non avevo i soldi nemmeno per comprare il primo materiale necessario su cui lavorare. Per fortuna, un signore che conosceva la mia famiglia, mi prestò 20 chili di cachemire, dicendomi “tranquillo, me li pagherai quando potrai”... tra noi contava la parola data. Quando poi raccontai al babbo il mio progetto, rispose: cocco mio non c’ho capito niente... Poi aggiunse un modo di dire tipico delle nostre parti: che vuoi diventare più ricco del cimitero? Ricordati che i debiti lavorano pure la domenica!».
La filosofia da dove nasce? Qual è stato il suo percorso scolastico?
«Dopo geometra, dove raggiunsi il diploma con il 6 politico, era il ’68-’69, il periodo della contestazione giovanile, mi iscrissi a ingegneria che ho frequentato per soli tre anni. La mia vera università, è stato il bar del quartiere con gli amici. Ci trascorrevamo tutta la notte. Un po’ giocavamo a carte e un po’ discutevamo di politica, di economia, di donne... ma eravamo solo uomini e l’unica donna che si univa a noi era Lella, la nostra amica prostituta che ci raccontava le pene del suo mestiere antico. La difendevo da certi ragazzi che la punzecchiavano con battutacce... provavo compassione per lei e ho tentato di convincerla a cambiare vita...».
C’è riuscito?
«Purtroppo no. Ma in quel gruppo di amici sciamannati, c’erano studenti del liceo classico che studiavano filosofia, materia che non conoscevo e la cosa mi scocciava parecchio, perché non ero in grado di partecipare ai loro discorsi, per esempio su Kant. Comprai un libro sul grande filosofo tedesco e una sua frase mi cambiò la vita: “Agisci in modo da trattare l’umanità sia nella tua persona, sia in quella di ogni altro, sempre come nobile fine e mai semplicemente come mezzo”. Poi ho continuato a studiare Socrate, Platone e un’altra folgorazione l’ho ricevuta dal libro di Marguerite Yourcenar Memorie di Adriano, un imperatore illuminato».
Proprio il busto marmoreo di Adriano l’ha regalato a Jeff Bezos, quando è venuto suo ospite in Italia...
«Sì, ne è stato molto contento... quella volta parlammo tanto di umanesimo e tecnologia».
Lei non è un imperatore, ma ha realizzato una sorta di impero economico. Che effetto le fa essere tra gli italiani più ricchi e come si concilia il lusso con il suo francescanesimo?
«I miei genitori mi hanno donato la povertà, pur non soffrendo la fame. Ora sono ricco, ma non è cambiato niente per me. Le possibilità economiche, che non hanno alterato il mio animo, di per sé stesse non danno la felicità, tuttavia mi hanno dato la possibilità di realizzare tante cose che non avrei potuto fare altrimenti: a Solomeo, il borgo dove vivo con la mia famiglia, c’è la fabbrica, il teatro, la biblioteca, il monumento alla dignità dell’uomo e, per incitare i giovani a comprendere il valore del lavoro manuale e delle nostre preziose tradizioni, ho fondato una scuola di alto artigianato, ispirata alle idee di quei grandi visionari che furono John Ruskin e William Morris. Le generazioni future ci giudicheranno su ciò che sappiamo costruire e non ameranno le nostre distruzioni».
Solomeo è una Davos dell’anima?
«Non so se lo sia, ma in questo mondo in cui siamo perennemente connessi, i miei lavoranti non devono avere sempre il cellulare o il computer acceso: a fine giornata, dalle cinque del pomeriggio in poi, quando tornano a casa, non devono più essere raggiungibili per questioni di lavoro».
Allora perché i suoi dipendenti la chiamano il «tedesco»?
(Ride) «Perché agli esordi della mia carriera ho lavorato in Germania, l’unico Paese dove venivo pagato... Ma soprattutto perché mi piace il rigore e in azienda, se qualcuno offende qualcun altro, viene subito licenziato, indipendentemente dal suo ruolo».
Cosa la fa arrabbiare?
«Da giovane mi arrabbiavo di più, ora non tanto, semmai mi limito a non condividere. Sono però molto ordinato e il disordine mi fa alterare. Dico ai miei impiegati che la loro scrivania, a fine giornata, deve essere lasciata in ordine, in quanto il giorno seguente potrebbe essere utilizzata da altri».
Lei appare davvero perfetto. Possibile non abbia mai fatto una cattiveria?
«Non so se l’ho fatta, mi auguro di no. Certo ho anch’io il mio demone, che tengo nella parte destra del petto, e ammetto che qualche volta ho detto cose per le quali mi sarei voluto tagliare la lingua. Nella sinistra del petto tengo l’anima col suo bene».
Mai provato invidia?
«Se l’ho provata, l’ho saputa governare. Una bella frase, mi pare, di San Pietro dice grossomodo: non tramonti mai il sole sulla nostra ira... In altri termini, meglio non andare a dormire con lo spirito iracondo, fa male alla salute».
E come ha reagito all’invidia nei suoi confronti?
«Do per scontato che esista, e in certi casi l’ho avvertita. Spero solo che almeno il 50 per cento delle persone condividano il mio pensiero».
Scenderebbe in politica? Gliel’hanno mai proposto?
«Sì, è capitata qualche proposta ma non fa per me. La politica è una cosa molto seria e, per farla, bisogna dedicarsi completamente, mentre io voglio fare l’industriale in Italia e in un solo settore: è bene concentrarsi su una sola attività, che non è detto che ti riesca bene».
Niente sogni nel cassetto?
«Mi piacerebbe tanto conoscere il greco antico, per poter leggere certi testi in originale. Aggiungerei una cosa, posso dirla?».