la Repubblica, 28 settembre 2022
Tulu e Meyer per l’Africa insieme trent’anni dopo
Sono ritornate a Barcellona, nello stadio dove per la prima volta trent’anni fa l’Africa si abbracciò. Finalmente era la loro Africa. Perché il razzismo si cancella (un po’) anche così: condividendo la stessa gioia. Due donne: una ragazza bianca di quasi 26 anni e una nera di 20. Correvano i 10 mila metri e per entrambe nel ’92 era la prima volta olimpica. Prima, Sudafrica ed Etiopia erano fuori dai Giochi, il primo da 32 anni per la politica dell’apartheid e il secondo da otto, per guerra civile e carestia.
Elana aveva i capelli corti e un top corto con l’ombelico scoperto mentre Derartu indossava una T-shirt bianca di cotone sotto la canotta e aveva i capelli raccolti. Meyer e Tulu non si conoscevano. Quando suonò la campanella per l’ultimo giro della finale dei 10 mila metri Tulu, la ragazzina degli altopiani di Bekoji, 2.810 metri, che correva dietro le vacche, scattò e superò quella cresciuta in una fattoria nella provincia del Capo occidentale. Derartu vinse l’oro, prima medaglia di una donna dell’Africa subsahariana, Meyer l’argento, ma sorrise, perché correva da più di un decennio, e non aveva mai potuto partecipare a gare all’estero. «Ero frustrata, avevo 26 anni, ero la più in forma, ma fino a quel momento tutti gli appuntamenti sportivi più importanti mi erano preclusi. I Mondiali di atletica del ’91 li avevo visti dalla tribuna. Sulla carta ero la più forte, manon potevo mai gareggiare in campo internazionale per la politica segregazionista del Sudafrica. Quattro mesi prima dei Giochi un referendum aveva cancellato l’apartheid. Così quando tagliai il traguardo andai da Tulu e le diedi un bacio, lei ricambiò e ci abbracciammo».
Quella Rainbow Nation che desiderava Mandela prese forma lì. Solo che Tulu parlava solo il suo dialetto e non sapeva l’inglese: «Elana continuava a dirmi un sacco di parole, e io a sorridere, agli altri sembrò che tra di noi ci fosse una lunga conversazione, io invece non capivo niente, e tutti poi a chiedermi, allora cosa le ha risposto? Ma niente, però con i gesti andò meglio e così corremmo insieme il giro d’onore con le rispettive bandiere». Elana aveva quella olimpica, che lei ha appena donato al museo di Barcellona. Tutte e due sono madri con figli, due a testa, anche se Derartu ne ha adottati altri quattro. E dicono: «Si vede che l’incrocio delle nostre vite era destino, perché a entrambe lo sport ha cambiato la vita, siamo rimaste nell’atletica con vari incarichi e tutte e due siamo in salute. Ci avessero detto che 30 anni dopo avremmo ancora festeggiato quel giro d’onoresotto braccio, questo no, non l’avremmo immaginato. Il bello è riuscire a chiudere il cerchio, anche se i nostri figli non corrono, perché forse dovrebbero patire il confronto con le loro mamme». Però le sorelle Dibaba, campionesse del mezzofondo, sono cugine di Derartu. Vi siete riviste nella condivisione della felicità con Tamberi e Barshim a Tokyo? «Lo sport ti aiuta a rispettare l’amicizia, ti insegna che hai sempre bisogno dell’altro per migliorare, ma nella nostra gara c’è stata una classifica, un oro e un argento».
Meyer, che come sportiva ha patito l’esclusione dall’attività internazionale, dice che lo sport dovrebbe costruite ponti, non distruggerli. «Escludere gli atleti russi dalle competizioni non risolve niente. Perché un campione dovrebbe pagare le colpe del suo Paese? Non è stato il boicottaggio dello sport a fare cambiare la politica sudafricana, ma quello economico. Lo sport dovrebbe far capire che esistono altri modi per vivere insieme. Noi 30 anni fa l’abbiamo trovato, senza conoscerci».