il Fatto Quotidiano, 28 settembre 2022
Intervista a Elena Sofia Ricci, per la prima volta regista
Elena Sofia Ricci è il paradigma di cos’è il mondo della recitazione, del cinema, del teatro a seconda dei contesti: lei si diverte, si entusiasma, riparte da capo, gioca, si estranea da se stessa per poi tornare (magari) un’altra se stessa.
Questa volta il “gioco” l’ha riportata sulle assi del teatro come regista di Fedra – dal 4 al 9 ottobre al Quirino di Roma – “ed è la mia prima volta in questo ruolo”.
E cosa ha scoperto?
(Sorride) Non credevo di poterci riuscire, invece ne sono uscita discretamente; (cambia tono) sono innamorata degli attori con cui ho lavorato: sono eccezionali.
Fedra
…
Inizialmente dovevamo portare Hedda Gabler, poi abbiamo scoperto che ce n’erano già tre in lavorazione, allora mi hanno proposto Fedra.
E lei?
Mi è preso un colpo.
Poi?
È una delle grandi fortune di questo lavoro: puoi scoprire, cimentarti, metterti alla prova, crescere di continuo. Così ho studiato e ho scoperto un dramma straordinario, attualissimo, con risvolti da psicoanalisi assolutamente anticipatori di Freud.
Da regista ha mostrato i ruoli agli attori?
Ho proprio rotto le palle.
Quindi ha mostrato…
Non sono brava a spiegarmi con le parole, allora sono salita direttamente sul palco e ho interpretato tutte le parti (e inizia a recitare, va quasi in trance, alterna le voci).
Crisi di nervi?
Loro? No, anche perché alla fine ho dato le indicazioni; (pausa) la compagnia è composta da attori fenomenali; con Valentina Banci desideravo lavorare da molto tempo.
Conosce tutte le battute a memoria?
No, non esageriamo, però il dramma lo sento come vivo.
Cioè?
È la storia di una passione insana nata dentro un contesto familiare; noi tutti siamo figli delle nostre storie familiari e tutti noi ci portiamo dietro quei mostri.
Ecco Freud.
Lui ha preso molto da Seneca; (sorride) mi hanno regalato il cofanetto di Freud, ma in realtà dovevano darmi proprio Seneca.
Per la psicoanalisi ha una passione.
È fondamentale, il mio percorso è durato vent’anni; (pausa) volevo studiare psichiatria, poi sono diventata una paziente ed è stato più facile.
Un obiettivo raggiunto da regista.
(Ci pensa) Mantenere un equilibrio tra la fedeltà del testo e una messa in scena non pedante; (sorride) comunque è un atto unico di un’ora e mezzo, non c’è alcun sequestro di persona.
È agitata per il debutto?
Non dormo proprio e se mi addormento sogno le scene.
Come mai non è sul palco?
Ho capito che non riesco a recitare e insieme dirigere: ho bisogno dell’occhio diretto.
A chi ha chiesto consiglio?
Ho chiamato il mio maestro, Armando Pugliese, gli ho raccontato le prime idee, e lui, con la sua inflessione napoletana, mi ha riportato a più miti consigli: ‘Prima di svolazzare leggi bene il testo’. Aveva ragione.
In cosa si è stupita?
Credo di non aver lasciato una parola al caso; con Seneca è stato importante per andare a fondo dell’animo umano.
È più coraggiosa o incosciente?
Credo incosciente.
E se le diciamo “merda, stupenda, diavola”…
È l’augurio di zio Francesco (Nuti, ndr) al mio debutto nel 1981; (pausa) mi portò tanta fortuna. Quindi va bene…