il Fatto Quotidiano, 28 settembre 2022
Perché Michail Gorbaciov non era un eroe sconfitto malgrado l’appoggio politico
Nessuno ha potuto ignorare la morte di Michail Gorbaciov. Tuttavia, salvo pochissime eccezioni (cfr. ad esempio, Tommaso Di Francesco, il manifesto, 1.9; l’intervista ad Achille Occhetto di Tommaso Rodano, Il Fatto, 1.9), è stato decantato come un eroe sconfitto malgrado l’appoggio politico offerto dall’Occidente; da destra, ma anche da sinistra. Non è così.
Innanzitutto, cosa significa essere sconfitti? Ricordo d’aver partecipato a un’assemblea romana, dopo il colpo di Stato di Pinochet. Magri, Sofri e altri oratori si alternavano per impartire lezioni di leninismo alla salma di Salvador Allende, reo di non avere usato strumenti incostituzionali per prevenire il golpe, ovviamente sostenuto da Washington. Riccardo Lombardi spiegò allora a un uditorio silenzioso e emozionato che esistono delle sconfitte che contengono i semi di vittorie storiche come anche vittorie che preludono a sconfitte. Che la difesa intemerata della politica socialista da parte di Allende, in coerenza con le regole della democrazia, in quella parte del mondo ispirata dalla cultura di Simon Bolivar, costituiva una vittoria storica, malgrado il massacro in corso.
Nel caso di Gorbaciov vale un ragionamento analogo. Le numerose ricostruzioni provocate dalla sua morte seguono un tracciato di comodo, determinato dalla politica estera statunitense di oggi. Sono smentite proprio da un’interpretazione alternativa, certamente problematica e verificabile, della politica di Washington nei suoi confronti. Non deve sfuggire la convinzione del presidente statunitense dell’epoca, il repubblicano ultraconservatore Ronald Reagan, affiancato dall’altrettanto reazionaria prima ministra britannica, Margaret Thatcher, secondo cui perestrojka e glasnost corrispondessero a un’effettiva volontà di Gorbaciov di porre fine al regime sovietico. Poiché costoro erano anticomunisti sinceri, tale intuizione suggeriva loro un atteggiamento di disponibilità nei confronti del presidente ancora sovietico, salvo ulteriori verifiche. Al contrario, la vecchia guardia della Guerra fredda, sintetizzata dalla figura di Henry Kissinger (che non va confuso con il Kissinger di oggi), non contestava questa interpretazione del nuovo corso di Gorbaciov, pur ritenendola pericolosa poiché incompatibile col bisogno statunitense della permanenza di un nemico credibile al Cremlino. L’ingente impegno di risorse economiche e militari, oltre che la dipendenza degli alleati europei da Washington, richiedevano la continuità del regime e della nomenklatura sovietica, incompatibile con l’innovazione gorbacioviana.
Una successione di vertici – particolarmente rilevante quello di Reykjavik – produsse risultati importanti: l’annullamento reciproco dei missili di media gittata il cui schieramento aveva provocato ulteriori tensioni e proteste di massa in Europa nel corso degli anni ‘80; il riavvio di trattative per la riduzione e la graduale eliminazione degli armamenti strategici; addirittura, l’ipotesi di un disarmo generalizzato. Fino a sfociare nella caduta del Muro di Berlino, con l’annullamento della Dottrina Breznev che teorizzava il diritto di Mosca di garantire con ogni mezzo la fedeltà a Mosca dei suoi alleati minori e il conseguente scioglimento del Patto di Varsavia. A tali eventi corrispondeva l’impegno da parte di Washington di non estendere la Nato oltre la sua composizione vigente. La violazione successiva di tale impegno in tempi recenti è stata giustamente denunciata per spiegare le origini della guerra in Ucraina e denunciarne i pericoli. La politica di Gorbaciov inizialmente assecondata da Washington, mirava a una fase di distensione fattiva dei rapporti tra Est ed Ovest e la costruzione di un’Europa riunificata e indipendente, dall’Atlantico agli Urali, che salvaguardasse il futuro di una Russia non più di marca sovietica, potenzialmente democratica e socialista.
Quali furono le tappe che posero fine alla svolta impostata da Gorbaciov e assecondata dalla presidenza Reagan? Non ho documenti tali da ricostruire una consapevole e programmata politica alternativa da parte di Washington e mi guardo bene da ricorrere a cospirazioni indimostrate. Tuttavia, la successione degli eventi, a partire dall’insediamento di George H.G. Bush alla Casa Bianca, nel gennaio 1989, parlano chiaro. Dopo un inizio prudente, che comprese un accordo sulla riduzione dei missili di lunga gittata del 30% e la stessa riunificazione della Germania, inizialmente osteggiata da Mitterand ed Andreotti, fu il summit di Londra, dal 15 al 17 luglio 1991, a segnare la svolta. Vi partecipò Gorbaciov, pressato da una situazione economica e sociale sempre più drammatica nel suo paese. Egli fu costretto a tornare a Mosca con un bagaglio di buone parole, ma privo di quegli urgenti aiuti economici internazionali che lo avevano spinto a sollecitare l’invito a Londra. Nel successivo mese di agosto ebbe luogo un golpe orchestrato da una parte della classe dirigente sovietica che lo vide per alcuni giorni prigioniero nella sua dacia, a Foros in Crimea. Nel frattempo raggiunse il suo apice l’ascesa politica di Boris Eltsin, fino a quel momento schierato quale principale alleato politico di Gorbaciov, che assunse il controllo della capitale con l’appoggio di una parte delle forze armate e di alcuni sindaci di grandi città. Gorbaciov fu liberato dalla prigionia, ritornò a Mosca, soltanto per subire l’umiliazione delle proprie dimissioni di fronte al plenum del Soviet Supremo e l’insediamento del suo ormai rivale, Boris Eltsin, acclamato dall’intero Occidente e padrone della piazza di Mosca. Al posto della transizione democratica che avrebbe salvaguardato, in forma confederativa, l’unità territoriale della nazione russa, con alcune fondamentali garanzie sociali in un contesto democratico costituzionale, vi fu la rapida e totale trasformazione capitalista del sistema economico, in cui buona parte dalla vecchia nomenklatura divenne, come per incanto, nuova oligarchia finanziaria e proprietaria delle principali industrie un tempo sovietiche. Paul Krugman – premio Nobel per l’economia e columnist del New York Times, non certo sospetto di simpatie putiniane o filosovietiche – in uno scritto recente dedicato a Gorbaciov, ha constatato come la transizione capitalista imposta da Washington e accettata da Eltsin, abbia avuto due effetti numericamente incontestabili: l’introito medio pro capite Pnl è precipitato da circa 21.000$ annui (1990) a circa 12.500$ annui (1999); l’aspettativa di vita da 68 anni (1990 ) a 65 anni (2000), con un incremento della mortalità infantile, aggiungo io, ancora più impressionante (Working Out. The nightmare after Gorbachev, New York Times, 2.9.2022). Le spiegazioni sono variegate, ma l’arco di decrescita è questo, da Gorbaciov a Eltsin, fino all’inizio della risalita con l’avvento dell’antidemocratico Putin. Da parte sua il presidente Eltsin ottenne ciò che al summit di Londra era stato negato al suo predecessore. L’amministrazione Bush, forte del Washington consensus che estendeva il suo controllo alle istituzioni economiche internazionali, in primo luogo il Fondo Monetario Internazionale, trasformò Eltsin in uno dei governanti più servili, oltre che più corrotti del mondo esterno al sistema di alleanze occidentali, rapidamente portate ai confini dell’ex Unione Sovietica che, in altre sue parti, veniva erosa dall’indipendenza nazionale di alcune sue componenti. La guerra in corso in Ucraina costituisce il capitolo ulteriore della medesima vicenda.
Questa successione di eventi, per quanto sintetizzata, consente di concludere, con Barbara Spinelli, che quelle versate in questi giorni da buona parte dell’impero mediatico mondiale sono lacrime di coccodrillo (cfr. Il Fatto, 2.9). Consente anche di sperare che Riccardo Lombardi, nel ricordare Allende, avesse individuato un metodo che ci consente di interpretare passato presente futuro con le lenti di Gorbaciov. Aggiungo soltanto un ricordo tratto da uno dei nostri incontri diretti. In un’occasione conviviale ristretta, gli chiesi come mai egli, sincero democratico, avesse accolto con favore l’ascesa di Putin che tale non era. La sua risposta fu semplice: “Se vuoi batterti per la democrazia, uno Stato deve esistere”.