Robinson, 24 settembre 2022
La lingua di Arbasino
«Un nero volo di uccellacci frenetici». La frase in neretto salta agli occhi ad apertura di libro, tra risguardo e frontespizio, proprio al centro della pagina per il resto vuota. Le pagine subito successive sembrano tavole futuriste, con parole libere di volare come stormi in un cielo contemplato da un àugure pessimista, composte a forma di ali, come nei calligrammi ellenistici e poi di Apollinaire. Per il suo Super-Eliogabalo (prima edizione, Feltrinelli 1969) Alberto Arbasino si era divertito a combinare col tipografo queste pagine inaugurali, probabilmente seguendo la nuova moda dei titoli di testa creativi, animati e buffi del cinema d’epoca ( La prima Pantera rosa di Blake Edwards è del 1963). Non sarebbe più successo e quindi non si può prendere questa fantasia grafica come alcunché di tipico, in sé, della scrittura arbasiniana. A parlare della lingua di Arbasino, si può però cominciare da qui perché non di lingua si tratta ma più propriamente di scrittura.
Si apre un suo libro e si pensa: Arbasino scrive. Non nel senso ovvio (non è una tautologia), ma perché quel che gli sta a cuore è dare corpo (tipografico) alla lingua che ha in mente e per farlo si serve di tutti i mezzi a disposizione. Di lì l’affollarsi di segni: i punti di sospensione, gli abbondantissimi esclamativi ( soprattutto negli anni Sessanta) e interrogativi (anche dopo), i corsivi, a volte i neretti, i due punti (:) gaddiani, i trattini e i trattoni, le maiuscole per nomi comuni e per i molti nomi propri, gli accapo e persino (sì) gli asterischi. Nella primissima edizione di Fratelli d’Italia ( Feltrinelli, 1963; sarebbero poi seguite Feltrinelli, 1969; Einaudi, 1977; Adelphi 1993) gli asterischi sostituivano le vocali delle parolacce dei dialoghi: “ c* zz*, c* zz*, c* zz*!” esclama a ripetizione una dama; “ v* ff* nc* l*”, argomenta il narratore, che nell’edizione 1993 tornerà su quelle sue reticenze passate a metterlo per esteso: «sulla pagina, è brutto». Non era scrivere parolacce, a dare brividi ad Arbasino. Il turpiloquio ( e anche la bestemmia) costituisce una delle faglie più spettacolari aperte fra lo scritto e il parlato. Sorvegliarla, scandagliarla, attraversarla dove è più larga e profonda — quella faglia — è la vocazione primaria della scrittura arbasiniana.
Come l’anitra Martina con Konrad Lorenz, appena nata la sua scrittura aveva incontrato e adottato come genitrice l’incipit gaddiano sulfureo e subito in medias res dell’Adalgisa: «E che ero una qui e che ero una là; e che cantavo nei teatri da strapazzo, per i militari; che avevo già avuto una cinquantina d’amanti!... Ma sì!... cento... mille... un milione! » . Così, da subito, quelli di Arbasino sono stati scritti in presa diretta (Fratelli d’Italia comincia come
un collegamento da tg: « Siamo qui a Fiumicino »), che possono essere esilaranti come “La narcisata” o agghiaccianti come il reportage sul rapimento Moro, montato sui discorsi colti al volo nei luoghi pubblici in quei giorni sospesi e fatali. Libri interi di interviste e conversazioni; nelle altre prose, il tono ormai temperato su un andamento da discorso orale scritto (dove per “scritto” si intende il contrario di “ trascritto”: orale lavorato per iscritto, o scritto lavorato in modalità orale). Disinvoltura, teppismo ( oltre che tempismo), provocazione, vivacità, scurrilità sono così da considerarsi come effetti secondari, di un’intenzione già appunto enunciata nel romanzo totemico pluriedito: « E continue conversazioni per rendere sempre più legittimo l’uso dell’italiano parlato... presentandolo come se fosse la lingua più sottile e più duttile del mondo... senza nodi, senza cartilagini... la più facile da adoperare... nuovissima... » . Proprio per questo Arbasino affiancava Gianni Celati nel duumvirato ( per altri versi quanto disomogeneo) apicale nel pantheon letterario di Pier Vittorio Tondelli. La modernità passava dall’orale messo in pagina, via dai vezzi della scrittura rotonda, curiale ed elzevira della tradizione italiana (oggi rimpianta ed emulata come unica alternativa alla sciatteria del diarismo dolente e goffo).
Ma allora come metterla con i suoi famosi tòpoi? Sono elenchi cumulativi, allitterazioni e calembour, ossimori e iperboli, salti di registro, tarsie di tasselli plurilinguistici, iperletterari, volgari, collezioni inesauste di modi di dire e luoghi comuni, stilemi tipici (“ tutto un”, “ madornale”, etc. etc.) che certi suoi lettori si trovano nelle dita quando poi si mettono a scrivere in proprio. Prendendo la resa mimetica del parlato come dimensione complessiva della scrittura arbasiniana, queste figure, tanto ghiotte per il retorologo, andranno considerate come dispositivi di animazione, acrobazie a senso doppio, triplo, quadruplo o non percepito, che costringono il lettore a badare piuttosto al ritmo, alla musica, all’orchestrazione. Sempre in velocità, per il principio: « e senza star lì a rompersi le impazienti palle » ( che sembrano, in parte, due settenari del Parini). Giocolerie che lo hanno messo in sospetto di clownerie, proprio lui, tanto capace di affondi profondissimi sotto la leggerissima superficie testuale. Certo è impossibile dimenticare di quando all’uscita di Hannibal, the Cannibal ipotizzava il sequel “Asdrubal, the Rompibal”; o quando si concedeva addirittura osservazioni sulla possibile derivazione dal “Me ne frego” fascista al “minifrigo” delle camere d’hotel. Figurarsi oggi, all’epoca del letteralismo e del senso sempre e rigorosamente uno e unico...