Robinson, 24 settembre 2022
A Firenze un mini-museo dedicato ad Arbasino
Sulla scrivania spartana e un po’ logora di Alberto Arbasino, la macchina da scrivere elettrica, mai abbandonata, dialoga a distanza con le storiche Underwood ante guerra che appartennero a Pratolini e Gadda. Siamo a Firenze, Gabinetto Vieusseux, nella sede di palazzo Corsini Suarez d’Oltrarno, dove martedì 27 settembre verrà inaugurato il nuovo “ ambiente letterario” dedicato ad Arbasino, una sala rettangolare che affaccia sulla strada e sul cortile rinascimentale. Il lascito di uno dei grandi del Novecento incontra così il suo background naturale, accanto a Gadda, Pasolini, Cristina Campo, Dallapiccola, Savinio, Mafai, Papini, Ungaretti, Luzi, Prezzolini, Montale...
Sorprende che tutto abbia preso vita così in fretta. Al desiderio dello scrittore, scomparso due anni fa, hanno risposto con generosità e dedizione il fratello Mario Arbasino con i figli Silvia, Claudia, Edoardo, e Gloria Manghetti, direttore impeccabile e dinamico del Gabinetto Vieusseux.
Nella “Sala Arbasino” al piano terreno, anelli di luce filtrano dal vetro opalescente delle due grandi lampade ispirate agli scacchi, Re e Regina: design iconico degli anni Sessanta ( per Fontana Arte) che marcava la modernità nel salone- studio di via Gianturco, residenza romana amatissima dello scrittore.
Assente, sulla scrivania di Firenze, il mitico fax, oggetto diventato di culto. C’è invece l’immenso divano, il cuore della casa di Roma. Arrivato al Vieusseux con fatica perché, così teatrale e fuori scala ( cinque metri e passa), non usciva ahimè dalle porte: era stato costruito sul posto. Si è dovuto recuperare il tappezziere d’antan e gli avanzi originali di stoffa, segarlo e farlo viaggiare in due pezzi ( salvifica, in questi frangenti, la signora Graziella, vestale del tempio arbasiniano di Roma).
Dettagli, per dire la complessità di un trasloco che ha inteso salvare storicità e suggestione della casa romana, senza inseguire un calco alla lettera. Impossibile nella realtà, perché, negli spazi fiorentini — storici e dunque limitati — la memoria si attiva per frammenti. Succede nella stanza di Pasolini, dove l’ambientazione cupa diSalò rivive nei divanetti improbabili, in radica e velluto bluette, che il regista aveva sottratto a quel set.
Frammenti dunque: pezzi di biblioteca con l’inaffidabile scaletta ( « non uso computer e cellulari, lavoro meglio andando su e giù per scalette... si fa più fitness e wellness che piantandosi davanti a un apparecchio») e stralci di arredo e dipinti di amici (Scialoja, Pasolini, Fioroni) e un archivio di 119 faldoni. Dove fa male incontrare quei fogli sottili di carta termofax in cui la scrittura è volata via e, pur saturando i contrasti, sarà molto difficile alzare il livello del nero fino a recuperare un testo leggibile.
Mi sono più volte commossa. Un tuffo al cuore, quando su una banalissima cartella verde da ufficio, si legge, in rosso, Fratelli d’Italia / prima stesura. Poi, così tenera, la “ FOTO NOI TRE” con i piccoli Alberto, Mario, Massimo Arbasino sul divano di vimini, nel verde della casa a Rivetta. Sono gli anni dell’educazione sentimentale a Voghera e quella casa, da sempre, è il luogo dell’intimità familiare.
«La biblioteca, già a un primo spoglio, ci consegna edizioni preziose e dediche dei grandi del Novecento: T. S. Eliot, Calvino, Queneau, Roland Barthes “ avec ma fidèle amitié et complicité”, Manganelli, Calasso, Pasolini, Moravia... » , mi dice la direttrice Gloria Manghetti. La biblioteca appunto che, nella citazione famosa di Umberto Eco «è la cosa più vicina alla mente di Dio » . Eco del resto non inventava parole, ma rilanciava la metafora di un verso del Paradisoquando Dante, fissando la mente divina, vede l’intero universo « legato con amore in un volume » . « Una biblioteca — continua la direttrice — che ha invaso la sala e i depositi e colpisce per la quantità di cataloghi di mostre e musei collezionati nel mondo».
Davvero sono tanti i cataloghi e, stipati in una scatola rossa, sono tanti i taccuini minuscoli che hanno accompagnato lo scrittore nei viaggi ( su piccoli post- it si legge Berlino, Schwerin, Londra e Edimburgo, Monaco, Dublino, Dresda, Zurigo, Trento... ) e registrato giudizi e intuizioni che hanno plasmato lo sguardo della mia generazione. “Epifanie estreme” — scriveva Arbasino — della musica e della pittura, che lui era in grado di tradurre in parole che mai noi avremmo saputo trovare. Supreme equivalenze verbali, mongolfiere di luce che volano alto fino ad attingere l’inesprimibile.
Quella sua conoscenza sterminata « che lui portava come un vestito leggero, un tropical » ( Guido Almansi) ha sparigliato le carte anche nel campo della critica d’arte. Quel suo linguaggio liquido, frantumato, in rotta di collisione rispetto alla scrittura nobile e certificata, ha ricreato il giornalismo culturale, sepolto l’elzeviro, messo in crisi l’impalcatura del saggio e la formulazione corrente dei giudizi estetici...
Ma Arbasino è stato di più, anche nella nostra disciplina. Perché quei giudizi, che sembrano casuali e volatili, folgoranti anche nei frammenti, sono schegge di un’architettura saldissima, che ha piazzato molte pietre angolari. Da anni, alcuni volumi di Arbasino sono entrati nei programmi universitari dei nostri studenti, accanto ai testi di Longhi, Praz, Haskell e Rosenblum. Anche se spesso l’Accademia — con l’eccezione di una cerchia un po’ eccentrica che andava da Anceschi a Eco a Ezio Raimondi — non gli ha riconosciuto quel ruolo ditrailblazer fra i capitani coraggiosi che avevano «connesso Rauschenberg con Stockhausen, avvistato la nuova musica, la pittura informale, poi quella pop, ilnouveau roman... il recupero del classicismo, futurismo, barocco, la rilettura di Nietzsche e di Artaud» (Arbasino).
Oggi la prospettiva è decisamente cambiata. I giovani leggono affascinati Arbasino, per quel suo lavorare con le idee, estraneo ai fuochi delle ideologie, libero da tutte le chiese. Già si è visto al convegno universitario di Padova, dove una generazione appassionata e agguerrita si candida a portare nuova linfa agli studi, setacciando magari anche i silos letterari dell’archivio Vieusseux.
Si stempera così, in questa fiammata di giovanile entusiasmo, il ricordo struggente di un ultimo Capodanno veneziano quando, nella penombra della quadreria di Pier Luigi Pizzi, si avvertiva che Arbasino stava ormai per entrare nella notte e brillare in solitudine nella stellata bellezza del grande Novecento.