Corriere della Sera, 27 settembre 2022
Intervista al frate Adrien Candiard
Adrien Candiard ricorda quella sera nella sua casa di Parigi. Aveva 9 anni. A cena disse ai genitori: «Avrei pensato di farmi frate». Il padre Bernard, che è stato capo del Servizio d’informazione governativo con il premier Lionel Jospin e poi consigliere politico del presidente François Mitterrand, trasalì: «Ma che cosa dici, sei impazzito? È ridicolo!». Identica la reazione della madre Catherine Garandeau, docente d’inglese. «S’incazzarono», non ricorre a perifrasi padre Adrien («frère, fratello, suonerebbe meglio»), dal 2006 divenuto per davvero un religioso domenicano, che oggi vive al Cairo, dove si occupa di islam nell’Ideo (Institut dominicain d’études orientales).
Avrebbe potuto seguire le orme paterne, questo giovanotto che farà 40 anni il 31 ottobre. Quando decise di abbracciare il noviziato, era uno dei più apprezzati ghostwriter di Dominique Strauss-Kahn, in corsa per le primarie presidenziali francesi. Mollò Dsk a metà della corsa, quasi presago dello scandalo sessuale che nel 2011, a New York, avrebbe costretto l’economista socialista, divenuto nel frattempo direttore generale del Fondo monetario internazionale, a dimettersi.
Padre Candiard non ha tuttavia smarrito la sua capacità di scrittura, anzi. È un autore di grande successo. La sua pièce Pierre et Mohamed, in cui immagina un dialogo fra il domenicano Pierre Claverie e il suo autista Mohamed Bouchikhi, assassinati insieme in Algeria nel 1996, è andata in scena più di 1.700 volte in teatri, cattedrali e moschee di mezzo mondo. Claverie, vescovo di Orano, fu beatificato nel 2018. Di padre Candiard la Libreria editrice vaticana ha da poco pubblicato lo spiazzante Tolleranza? Meglio il dialogo e in questi giorni ha acquistato i diritti di Qualche parola prima dell’Apocalisse, che esce in Francia giovedì prossimo e che affronta un tema assai scomodo: i segni della fine del mondo.
Quindi la sua famiglia non è religiosa.
«No. Mi reputo fortunato: nelle generazioni venute cinque anni dopo la mia, la frequenza al catechismo è crollata dal 75 al 25 per cento. Ho genitori battezzati, ma che definirei postcattolici».
Anche dopo che lei è diventato frate?
«Sì, sono rimasti uguali. Papà crede in Dio, però non so se si definirebbe cattolico. Quando divenni novizio, prese ad andare a messa tutti i giorni. Poi tornò a essere sé stesso: non lo considero un male. Mamma forse si dichiarerebbe cattolica, ma fa più fatica a credere in Dio».
Ha studiato a Sciences Po, l’Istituto di studi politici. Con quale obiettivo?
«Diventare un politico. Mi pareva un lavoro nobile. Ero senz’altro ambizioso».
Infatti non ha scelto i francescani.
(Ride). «L’ambizione in politica è una virtù. Nella Chiesa non solo è un vizio, ma anche una cosa comica, triste. Fa pena».
Perché frate anziché prete diocesano?
«Mi attraeva la radicalità della vita religiosa. Noi emettiamo tre voti: povertà, castità, obbedienza. I sacerdoti no. Se avessi scelto il clero secolare, qualcosa sul conto corrente oggi lo avrei».
E perché proprio domenicano?
«Ci sono arrivato da adolescente. Leggendo i libri di storia, mi sono imbattuto in Bartolomé de Las Casas, il missionario spagnolo difensore degli indios. Ho pensato: ma questa è casa mia!».
Credevo c’entrasse il vescovo Claverie.
«Avevo 13 anni quando fu straziato da una bomba. Non ricordo nulla della sua morte né dei sette monaci trappisti di Tibhirine decapitati dal Gruppo islamico armato. Mi vergogno a dirlo».
In che modo avvertì la vocazione?
«Vado a messa dall’età della prima comunione. Sono il contrario di un convertito. Ho vissuto con Dio accanto a me».
Com’è visto un frate dalla società?
«In Francia con curiosità e simpatia. È una figura esotica, medievale, sconta meno pregiudizi del prete diocesano. E questo è ingiusto. Invece la suora viene presa in giro. E anche questo è ingiusto».
Che ci fa al Cairo?
«Mi ci hanno mandato. Avevo altri progetti. Pensavo di diventare biblista».
Che cosa la affascina dell’islam?
«Non i concetti. M’interessano i musulmani. Difficile ignorare 1,9 miliardi di persone. In Egitto le cinque preghiere quotidiane sono un richiamo continuo».
Ma gli egiziani pregano davvero?
«Non entro nelle case. È un clima sociale pio. Chi non prega, non lo dice».
Allah è più presente di Dio in Italia?
«Usciamo da un equivoco: stiamo parlando dell’unico Dio. I cristiani di lingua araba lo chiamano Allah. Non hanno un’altra parola per dire Dio. Quando celebro in arabo, sul messale leggo Allah».
Allora la differenza qual è?
«L’ambiente di pietà. Se salgo sul taxi al Cairo, la prima domanda è: “Di che religione sei?”. A Parigi non si fa, sarebbe come chiedere: “Qual è il tuo stipendio?”. Qui la maggioranza crede in Dio. I pochi atei si dichiarano stufi della religione».
Si sente al sicuro nella capitale in cui Giulio Regeni fu rapito, torturato, ammazzato e i suoi carnefici sono liberi?
«Sì. I religiosi, anche cristiani, sono rispettati e non mi occupo di politica».
Il compianto islamista Sergio Noja Noseda mi diceva: «Basta passeggiare per le strade di Algeri e ci si accorge che la maggioranza dei musulmani vuole portare i figli a scuola, mangiare in famiglia, far spesa nei centri commerciali e guardare un po’ di tv la sera». È così?
«È così. Però non va dimenticata l’identità. Se a un italiano togli ogni riferimento religioso, incluso il campanile, gli mancherà qualcosa nel paesaggio. Il salafismo, che invoca il ritorno alla purezza originaria dell’islam, fa entrare la religione in ogni aspetto della vita, ma così ne prepara la distruzione. Non puoi dire a un credente tiepido: “O sei musulmano al 100 per cento o non lo sei”. Quello alla fine ti risponderà: “Ok, non lo sono”».
Sull’islam lei scrive: «Non sappiamo neppure se dobbiamo avere paura e questo è forse ancor più inquietante».
«Alcuni affermano: “L’islam è tolleranza e pace”. Altri: “L’islam è jihad”. Usano versetti del Corano. Se non conosci, non sai a chi credere. Questo mette paura».
Dai jihadisti come ci si difende?
«L’Illuminismo voleva aiutare la gente a liberarsi dalle religioni. Ha portato frutti di convivenza, ma ora siamo alla fine: dobbiamo aiutare i credenti a essere più intelligenti. Serve un islam accademico, sicuro di sé, non influenzabile da personaggi senza istruzione che si autoproclamano predicatori».
Che risposta dà a chi pensa che l’islam punti a sottomettere l’Occidente?
«Se lo dicessi a un egiziano, strabuzzerebbe gli occhi: “Noi invadervi? Voi avete mandato i vostri eserciti in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Siria. Noi vestiamo all’occidentale: voi vestite all’orientale? Noi guardiamo Batman e le vostre americanate: voi vedete i nostri film? È l’Occidente che minaccia la nostra identità”».
Perché a 20 anni mandò in libreria il saggio «L’anomalia Berlusconi»?
«M’interessava l’Italia, ero pieno di ideali e preoccupato da ciò che vedevo».
In che consisteva questa anomalia?
«La prescrizione vale anche per me, eh!». (Ride). «Consisteva nella confusione fra interessi pubblici e privati».
Lo ripubblicherebbe?
«Da frate no di certo».
Che cosa scriveva per Strauss-Kahn?
«Discorsi, articoli, lettere. Dsk dettava la linea, io ci mettevo un po’ di cultura».
Fu reclutato attraverso suo padre?
«No. Pur sapendo, non so come, che andavo a messa, mi cercò lui all’École nationale supérieure, dove avevo fondato una sezione del partito socialista».
Come mai lasciò Dsk e si fece frate?
«Non voglio atteggiarmi a veggente, ma avevo capito che aveva un problema personale. E poi ero deluso dal suo rapporto con le idee: se ne innamorava e subito le lasciava cadere. Non era l’eroe di cui volevo diventare il paladino».
Però l’accusa di aver stuprato una cameriera in albergo venne archiviata.
«Solo perché indennizzò la vittima».
«Vanity Fair» scrisse che gli rimproverava la posizione sull’omogenitorialità.
«Non condivisi la sua prefazione a un libro su come essere genitori dello stesso sesso. All’epoca in Francia era illegale».
L’episcopato tedesco chiede che sia rivista la dottrina della Chiesa sulla morale sessuale. Lei è d’accordo?
«Serve meno ossessione in materia. Ci sono cose che non fanno bene alle persone. Ma i dogmi valgono solo per la fede. La morale non va dogmatizzata. Sarebbe un errore teologico, non solo strategico. Di definitivo esiste unicamente il comandamento dell’amore verso il prossimo».
Ha mai avuto una fidanzata?
«Seriamente? Una sola».
Perché un libro sulla fine del mondo?
«La gente non vuol sentirne parlare, ma l’Apocalisse le entra in casa con la tv. “Il Covid se ne andrà” ed è ancora qui. “La guerra in Ucraina finirà” e invece si avvicina un conflitto nucleare. “Il clima si aggiusterà” ma non si torna indietro. È solo l’inizio delle catastrofi future. Il tragico è entrato nel mondo. I credenti non sono a loro agio se gli ricordi Matteo, capitolo 13. Preferiscono le Beatitudini».
Sta preconizzando la fine del mondo?
«Non sono un profeta di sventura. Nessuno conosce la data. Ma Apocalisse in greco significa rivelazione. Ci dice che andiamo di crisi in crisi, non verso il progresso. E ci pone una scelta: accettare o rifiutare l’amore di Dio. Il che può migliorare o peggiorare il mondo».
In futuro il Papa sarà italiano?
«Non m’interesso di gossip ecclesiastico. Non conosco i nomi dei cardinali».
Ha mai incontrato Francesco?
«Mi ha ricevuto in udienza privata nel marzo scorso. Impressiona vedere la sua semplicità a confronto con l’apparato vaticano. Una persona mi aveva chiesto: “Digli che preghiamo per lui”. Gliel’ho riferito. Mi è sembrato molto colpito».