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 2022  settembre 27 Martedì calendario

Intervista a Cesare Cremonini

Cesare Cremonini è andato a cercare la voce di Lucio Dalla in una foresta in Germania. «È in un magazzino lassù che sono conservati i master con le registrazioni originali dell’epoca cui ho avuto accesso grazie a Sony e Fondazione Dalla. Dentro quei nastri ci sono segreti, respiri, umori, energie. La voce di Lucio ha una potenza e un timbro profondo: ho preso una lezione di canto. Rispetto alla versione fatta dal vivo la sfida è stata dare a quelle sonorità, che oggi sembrano datate, una produzione attualizzata per poterla portare alle nuove generazioni». Il risultato è un duetto su Stella di mare: esce giovedì come anteprima del doppio live sul tour negli stadi che sarà pubblicato il 28 ottobre.


È la prima volta che viene concesso l’utilizzo della voce di Lucio. Perché nel repertorio ha scelto proprio «Stella di mare»?
«È su Lucio Dalla , l’album più venduto in Italia nel 1979 con cui Lucio fece esplodere una forma canzone non più imbrigliata dalla politica. Aveva già liberato la canzone con Com’è profondo il mare , ma lì c’era ancora il rapporto con la società, “siamo noi siamo in tanti...”. Qui invece racconta l’amore, i rapporti quotidiani, l’intimità della camera da letto. Lui disse che voleva passare dalla canzone di protesta a quella di proposta. Andava contro l’atteggiamento, ancora oggi vivo in molti che non sono altro che canzonettari, del voler dimostrare una credibilità artistica attraverso l’attenzione alla politica».


Lei non farà mai una canzone politica, quindi?
«Nessuno vuole essere Robin è impegnata, ma più che politica la definirei civile. Quel “siamo tutti più soli” nasce da un disagio profondo e da un dolore privato che si collegano poi a una collettività intera. Anche La ragazza del futuro è civile, guarda alla collettività. Nel 2005-10 sono stato un autore che ha iniziato un racconto sull’intimità, poi sviluppato da altri, senza più gli stereotipi del grande amore baglioniano. Quel mio capitolo si va esaurendo per questioni anagrafiche, per la mia maturazione come uomo».


E lei come lo vive l’amore?
«Le mie canzoni dicono che l’amore l’ho vissuto tanto, ma adesso ne sento un’assenza spaventosa. Il vuoto di questo istante di vita è ingombrante. Ho fatto una scelta di onestà con me stesso e non mi basta più accontentarmi. Però il legame con il pubblico compensa questa mancanza. Lo disse anche Alberto Sordi in un’intervista in cui gli chiedevano del suo essere uno scapolone».


Invece Dalla, su cui sta anche scrivendo un film, non ha mai esplicitato le sue scelte sessuali. Secondo lei soffriva nel parlare di una lei nei testi?
«L’ambiguità di Dalla non era nella sua sessualità o nella sua vita, ma nelle composizioni. Non era in simbiosi con le sue canzoni. Io sono autobiografico, raccolgo pezzi di vita e li trasformo in brani».


Ci riesce ancora dopo quasi 25 anni di carriera?
«Il mio terrore è sempre stato quello di svegliarmi un giorno e dirmi “ormai sei grande, la musica è stata un’esperienza giovanile”. I 20 anni non ci sono più, a 40 sei ancora giovane ma ti chiedi se la passione rimane. Questi tempi aggressivi non aiutano: non memorizzano nulla e danno una sensazione di vuoto a quello che fai come artista. L’attenzione è ridotta e c’è una bulimia di contenuti a scapito di una qualità che va verso il basso».


Come ci si oppone a questa corsa al ribasso?
«Con la copertina di questo disco ad esempio. L’approccio attuale privilegia un processo creativo che punta a colpire il pubblico. Lo trovo insoddisfacente e dopo aver rifiutato 120 proposte ho chiamato un artista. Gianluigi Toccafondo ha dato una lettura che va oltre il tempo e nutre una parte del cervello diversa».


Ha iniziato a 18 anni con i Lùnapop: il successo le ha portato via qualcosa?
«Vedo tanti colleghi che si raccontano con un documentario. Io avrei qualche difficoltà. Se guardo i filmati e le registrazioni del mio archivio vedo molta vita fino ai 22 anni. Poi mi chiudo in uno studio di registrazione per 12 anni ed è solo lavoro per costruire una carriera in prospettiva. Sento tanta plastica intorno e sto riscoprendo Kurt Cobain e i Nirvana. Ma se lui nel biglietto di addio scrisse “è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”, io dico che è meglio morire lentamente. Se mi chiedi quanti anni ho non ho risposta e questo mi ha aiutato a misurarmi con Lucio».
La lettura è lentezza. Che libro ha sul comodino?
«Sto rileggendo Musicofilia di Oliver Sacks. Il rapporto fra cervello e musica mi intriga da quando sono ragazzino. Io credo, e i suoi studi lo confermano, che l’interesse per la musica sia innanzitutto biofilia, interesse per la vita».


Bolognese, ma lontano dal cerchio magico di Dalla...
«Sono la prima voce della mia città nata quando quell’epoca era finita. Sono riuscito a liberarmi da quella sala parto. C’è stata una conoscenza graduale e cauta fino a che con l’età e l’accumulo di canzoni avevo una strada definita e ci siamo incontrati da colleghi. Ho interiorizzato Lucio Dalla nel corso degli anni. In genere non amo come vengono le canzoni di altri artisti cantate da me e viceversa. Sono un artista “di voce”, ma nei geni evidentemente c’era questa possibilità, nutrita con la dieta territoriale del cantautorato bolognese... Ho parlato e condiviso il lavoro su “Stella di mare” con Ron, che è un artista e una persona fantastica. Era presente e aveva lavorato palmo a palmo con Lucio negli Stone Castles Studio durante quelle registrazioni di quei dischi e il suo sguardo era necessario. È rimasto entusiasta del risultato e affascinato dall’intreccio delle nostre voci. Vorrei coinvolgerlo ancora in altri progetti futuri. Quando mi chiedono il segreto della carriera, rispondo che è il mio modo di vivere, il cui unico segreto è Bologna».


Che idea si è fatto della Bologna di quegli anni?
«Ovviamente io non c’ero ma la Bologna che ha accolto e supportato la mia musica, prima ancora che lo facessero i miei coetanei, sono state le persone di altre generazioni che l’avevano vissuta da protagonisti e che poi me l’hanno trasferita. Io mi sono sempre sentito un artista di molte generazioni. Anche ora non c’è giorno in cui non incontri qualcuno tra amici, colleghi, professionisti del mondo dello spettacolo e non solo, che non mi offra il suo dipinto privato e personale non solo di Lucio, perché ognuno ovviamente ha “il suo”, ma di quella Bologna spezzata a metà dall’attentato alla stazione tra la fine degli anni di piombo e gli intensi anni 80».


La sua città oggi?
«Generosa, aperta mentalmente, progressista, inclusiva, empatica, non spaventata, allegra, proiettata nel futuro. Aggettivi ereditati dalla storia di questa città».


Sembra in controtendenza rispetto al Paese...
«Bologna può rappresentare un punto di riferimento. Sono andato a votare e non lo facevo da tempo perché non trovavo un’immagine di questo Paese rappresentata da una forza politica. L’età mi ha dato esperienza e coscienza. Il voto è un modo per confermare una visione critica della realtà».


Lei tifa Bologna: l’esonero di Mihajlovic?
«Sinisa ha sempre detto che non voleva essere giudicato per come stava ma per quello che faceva. La società ha diritto di fare scelte che ritiene giuste e comunque conoscendo la dirigenza credo abbiano valutato tutto. Rispetto per lui e per la società».


Dal 29 ottobre torna nei palazzetti. Ha già venduto 110 mila biglietti, ma non le sembra un ridimensionamento dopo gli stadi?
«Questa domanda tocca la mia sensibilità di musicista. Il mio rapporto con la musica va oltre la comunicazione di un progetto discografico. Dopo due anni di stop causa pandemia rimanere fermo un altro anno per difendere un posizionamento negli stadi sarebbe una sciocchezza. Voglio suonare».