il Fatto Quotidiano, 26 settembre 2022
Ritratto di Giannis Antetokounmpo
La National Basket Association lo ha capito decenni fa. Se vuoi vendere un prodotto a tutto il mondo non basta mettere in campo gli atleti più forti in quello sport e far giocare loro sfiancanti partite ogni tre giorni tra stagione regolare e playoff. Va costruito un lavoro di storytelling. Tutto reale, beninteso, ma che sia condivisibile, di esempio in ogni angolo del mondo, vendibile dalla Cina all’Europa. Da Bill Russell, nero a Boston fischiato dai suoi stessi spalti pur essendo quell’incredibile giocatore che era, alla complessa vicenda di Lewis Alcindor, nero pure lui, pacifista, che prese il nome islamico di Kareem Abdul Jabbar e portò il primo titolo della storia ai Bucks di Milwaukee. E ancora, la sfida tra Magic Johnson (Los Angeles Lakers) e Larry Bird (Boston Celtics) degli anni 80, i cattivissimi Pistons di Detroit che seguirono a quelle dinastie, il brand del “più forte di tutti i tempi” Michael Jordan, che negli anni Novanta diventa scarpe, maglie, addirittura figura stilizzata di un’icona con lui che schiaccia a una mano. Tutto si vende.
La storia di Giannis Antetokounmpo, nato ad Atene 28 anni fa da genitori nigeriani, per intenderci, è già un film Disney, Rise, in cui si racconta la storia dei quattro fratelli alti due metri che con sudore, lacrime, famiglia, un pallone da basket e un paio di scarpe in due (scena abbastanza drammatica quella che vede il maggiore, Thanasis, levarsi le scarpe per far entrare in campo il minore, Giannis), riescono a cavarsi dalla povertà e a giocare tutti in Nba. Storia disneyana, appunto.
In Giannis Antetokounmpo, Odissea, edito da 66thand2nd, Andrea Cassini ci mette attorno la cronaca di quella storia. E la cronaca è più brutta, meno disneyana.
Inizia a Sepolia, distretto operaio di Atene a forte immigrazione: albanesi, russi, europei, africani. Un’immigrazione di braccia, da lavoro nero (l’85% degli africani immigrati in Grecia è per le statistiche disoccupato), da comunità chiusa. Nel 1991 Charles e Veronica arrivano qui dalla Nigeria, dove hanno lasciato il primogenito Francis. Nascono in quegli anni Thanasis (1992), Giannis (1994), Kostas (1997), e Alex (2001), quattro nomi greci, ma senza un documento a poterlo testimoniare: non si sa nemmeno come si scrive, in greco, quel cognome “Adetokunbo”, che tiene assieme le radici adé, corona o maestà, e ti òkun bò, venuto dal mare.
Come le altre braccia nere arrivate in Europa, quei nigeriani non hanno cittadinanza, sono apolidi, e i loro figli con nomi greci non sono greci e non c’è nessuna legge per cui possano mai esserlo.
I due si arrabattano, il padre diventa il tuttofare del quartiere, la madre è un po’ domestica un po’ donna delle pulizie, i fratelli andranno a vendere merce contraffatta nei pressi dell’Acropoli affollata di turisti. E poi c’è il basket, una cosa che in Grecia è trattata con rispetto, non solo dalle parti dell’Olympiakos e del Panathinaikos, storicamente tra le due più forti squadre del Vecchio continente.
Negli anni 90 quei due lungagnoni di Thanasis e Giannis li trovi al campetto del Tritonas, a Sepolia, fino a tardi. Poi vanno a chiedere un bicchiere d’acqua al Kivotos Café. “Ogni volta, Yannis allunga ai ragazzi anche qualcosa da mangiare”. Sono altissimi e magrissimi. Quando Giannis farà le visite mediche a Milwaukee gli scoprono “un fegato provato dalla denutrizione, più vecchio dei suoi 18 anni”.
I due fratelli trovano una squadra in cui giocare. È il Filathlitikos, prima del loro arrivo mai salita oltre la terza serie greca. Filothei è un quartiere ricco, a nord della città. I due fratelli arrivano agli allenamenti a piedi da Sepolia e se fanno tardi dormono sui materassoni in palestra (non conviene se sei grosso e nero avviarti di notte al buio per quartieri in cui l’estrema destra di Alba Dorata inizia a far proseliti). A 16 anni questo 2 metri e spicci (diverranno 2,11 alla fine dello sviluppo), con leve lunghe e una falcata che taglia il campo in pochi passi, prende botte sotto canestro nella seconda serie greca. È un giocatore “nuovo”, uno di quelli nati col mito dell’Nba, di un irregolare come Allen Iverson, una guardia che si butta dentro il pitturato col suo metro e 83 e ne esce con un canestro, un assist, un fallo, un’invenzione. Solo che Giannis è grosso, e i grossi nel basket degli anni 90 sono centri, vanno sotto canestro a usare gomiti e ginocchia. E nella seconda serie greca ci sono grossi gomiti e grossi volumi da fronteggiare. Insomma, a vederlo anche così “secco” nei video dell’epoca, si capisce che è fatto per l’Nba. Nessun “lungo” di quell’epoca prenderebbe mai un rimbalzo in difesa per correre veloce palleggiando fino a schiacciare nel canestro avversario.
Come immaginerete la storia finisce, disneyanamente, bene. Giannis vince il titolo Nba con i Bucks nel 2020-2021 (è Mvp – il miglior giocatore – della serie finale) e nei due anni precedenti è Mvp della stagione regolare. Ma per arrivare là, sull’Olimpo, anche solo per poter lasciare la Grecia per gli Stati Uniti ha bisogno di un documento. Ha bisogno che la Grecia, dove è nato, gli riconosca la cittadinanza. La federazione di pallacanestro preme, ma il primo ministro Antonis Samaras resiste. In una nazione in cui l’immigrazione è diventata scontro politico, perché dare la cittadinanza a questo “nigeriano” nato in Grecia? Il risultato è un accrocco: il 9 maggio 2013, Giannis e suo fratello Thanasis ricevono una “esenzione speciale” governativa. Solo loro due. Nasce ufficialmente il cognome Antetokounmpo.