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 2022  settembre 26 Lunedì calendario

LA RIVINCITA DEL CAMALE-CONTE - IL PERONISTA DI VOLTURARA APPULA SOLO AL COMANDO GRAZIE A GRILLO CHE GLI HA TOLTO DAI PIEDI I FICO E LE TAVERNA E ALLA SCISSIONE DI DI MAIO CHE GLI HA HA LEVATO L'OPPOSIZIONE INTERNA (A DI BATTISTA CI HA PENSATO DA SOLO) – IN 60 GIORNI DI CAMPAGNA ELETTORALE, TRA LE RISATE PREMATURE DEL PD, CONTE HA DIMOSTRATO A LETTA CHE HA SBAGLIATO A TRATTARLO DA REIETTO – HA ABBRACCIATO I TONI POPULISTI, HA TROVATO IL SUO REGNO AL SUD E ADESSO PUO' LIQUIDARE GRILLO – E SE LANCIASSE UN'OPA SULLA SINISTRA USCITA A PEZZI DAL VOTO? -

Andrà chiarito, prima o poi, che cos’è quest’uomo. Nelle innumerevoli interviste a cui si è sottoposto, è stata quasi sempre fatta una domanda a Giuseppe Conte: definirebbe il suo M5S un partito di sinistra? La scena si è ripetuta più o meno uguale ogni volta. Un sorriso, il ghigno appena accennato che si intuisce dalla forma della bocca, e la risposta: «Noi siamo sicuramente progressisti».

C’è qualcosa di studiato in questa volontà di sfuggire alle categorie più classiche della politica. Eppure, qualcosa ricorda, ma il paragone forse va cercato più lontano, nell’Argentina di papa Francesco: nella sua posa descamisada, plasmata dal contatto fisico con la gente, dalla folla cercata e mai tenuta a distanza, il presidente del M5S ha operato una piccola rivoluzione peronista. Non c’è altro modo forse di dare un’etichetta a quello che è successo in questi sessanta giorni, sotto il naso dei suoi ex alleati.

Seppellito dalle risate forse troppo premature di diversi dirigenti del Pd a fine luglio, quando lo accusarono di aver scatenato la crisi che ha portato alla caduta di Mario Draghi, Conte è risorto a metà agosto con un solo obiettivo: dimostrare a Enrico Letta che aveva sbagliato a trattarlo da reietto. Ha abbandonato la riluttanza ad assumere toni più populisti, cercando quasi sempre di ingentilirli con coloriture più istituzionali e ha infilato la mano nella frattura sociale del Paese, incurante che la bolla metropolitana del Pd e del Terzo Polo lo beffeggiasse fin quasi al disprezzo.

Ha sfidato il mito di Draghi per indebolire gli altri partiti che ne esibivano l’Agenda come un’icona sacra, costruendo una campagna elettorale a difesa del Reddito di cittadinanza e del Superbonus.

Conte è un uomo della Ztl che prende voti fuori dalle Ztl. E’ un uomo del Sud, che al Sud ha ritrovato il suo regno. È un ex elettore del centrosinistra che ha sempre considerato la sinistra la sua casa, ma che deve far dimenticare di essere il presidente del Consiglio del governo che ha realizzato i decreti Sicurezza di Matteo Salvini.

E’ difficile riscrivere la storia, ma in quei giorni Conte era poco più che il cartonato che fotografavano accanto al leghista e al suo gemello diverso Luigi Di Maio, umiliato a Strasburgo - «burattino!» - dal liberale belga Guy Verhofstadt.

Non deve essere facile vivere tutte le vite che ha vissuto Giuseppe Conte in soli quattro anni. Lo sconosciuto in balia di M5s e Lega, il premier che fregò Salvini, «il punto di riferimento fortissimo dei progressisti italiani», l’affossatore di Draghi, il leader che sfida il Pd alla sua sinistra, che si confronta con Massimo D’Alema e raccoglie voti tra le periferie dell’Italia.

I processi in politica sono spesso frettolosi e feroci. Nel 2014, in un Transatlantico colmo di euforia dopo il voto delle Europee, un famoso conduttore televisivo, a un pugno di sgangherati cronisti che seguivano Beppe Grillo, decretò così la morte del M5S: «Siete come i sovietologi dopo la caduta dell’Urss». Bella battuta, ma poco lungimirante. Qualcosa di simile si è ripetuto due mesi fa. Quel pomeriggio di luglio che ha segnato la fine del governo Draghi, quando si chiusero alle spalle la porta della stanza dove avevano cercato di persuadere Conte a votare la fiducia in Senato, i dirigenti del Pd avevano una sola certezza: «Quest’uomo è finito»

Anche la notizia della morte politica del presidente del M5S è stata fortemente esagerata. Lo aveva intuito Rocco Casalino, lo stratega, il portavoce dei due anni e mezzo a Palazzo Chigi, ipnotizzato dal talento taumaturgico che ha sempre intravisto nell’avvocato. «Per me è normale quello che abbiamo fatto». Una campagna impostata con una formula semplice: infilarsi subito nei social per parlare ai più giovani, fare poche piazze mirate e riempirle, lasciare lontano il salotto dell’establishment imprenditoriale e politico di Cernobbio (era l’unico leader in collegamento e la sala lo ha accolto con il massimo della diffidenza).

Poi, nella parte finale, quando gli italiani sono tornati dalle vacanze, tanta tantissima tv. Conte ha abbandonato le prudenze istituzionali, l’aplomb che gli ha fatto da corazza quando era premier e che lo stava schiacciando da capo di partito.

Pochi ci credevano, anche tra gli storici volti del Movimento. Ma lui fino alla fine ha cercato la sua forza in una convinzione: in politica contano le vittime che fai. È la misura della forza, la prova della leadership, è un fight club fatale: «Prima ho fatto fuori Salvini, poi Davide Casaleggio dal M5S, poi mi sono liberato di Luigi Di Maio, cosa devo dimostrare di più? A Enrico Letta il partito glielo hanno consegnato in mano senza che lui facesse nulla».

Ora a Conte resta solo Grillo da liquidare. Ma il comico è rimasto un’ombra lontana, un oracolo stanco che è stato silenziato nel momento in cui da padre-fondatore e demiurgo è diventato consulente a contratto, poco più che un subaffittuario