il Fatto Quotidiano, 26 settembre 2022
Qatar, gli schiavi del Mondiale
“Devi aiutarci Muhammad. Uno dei nostri fratelli non viene pagato da cinque mesi. Ha reclamato lo stipendio al datore di lavoro e questo, per ripicca, lo ha cacciato dal campo di lavoro. Ora non ha un posto dove andare”. Il telefono squilla proprio mentre Muhammad crolla esausto sul suo letto, un materasso umido buttato per terra, dopo una giornata di lavoro. Nel pomeriggio il termometro era salito a 44 gradi: “Dimmi dove si trova che mando qualcuno a prenderlo”, risponde, cercando sulla app di Uber il primo autista disponibile. Le sue mani sono spaccate per il lavoro. La stanza è senza finestre. Un’ora dopo arriva Hari, 33 anni, operaio in uno dei faraonici cantieri di Lusail, la nuova città, vetrina del lusso, sorta a una quindicina di chilometri da Doha, dove si giocheranno le principali partite dei Mondiali di calcio, compresa la finale, dal 20 novembre al 18 dicembre 2022.
Gli incontri si svolgeranno in uno degli stadi più moderni del mondo, costruito per l’occasione insieme a palazzi, autostrade, alberghi, campi da golf, una metropolitana, un tram, un porto turistico e una “place Vendôme”. L’Iconic Stadium, ispirato al Dau, la tradizionale barca a vela, ospiterà fino a 80.000 persone. Il Qatar, grande quanto l’Île-de-France, è uno degli Stati più ricchi del mondo. Dei 2,8 milioni di abitanti, il 90% sono lavoratori immigrati. Il paese ha costruito la sua fortuna sfruttando un sottoproletariato in arrivo principalmente dall’Asia meridionale e dall’Africa. Talvolta, fino alla morte, come hanno documentato diverse Ong parlando di “schiavitù moderna”. Nel febbraio 2021, The Guardian aveva avanzato cifre agghiaccianti: in dieci anni, da quando la Fifa, nel 2010, ha assegnato i Mondiali di calcio 2022 al Qatar, su sfondo di corruzione, almeno 6.500 lavoratori arrivati da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka sono morti d’infarto, stress termico o per cadute accidentali, mentre costruivano le infrastrutture che ospiteranno i Mondiali. Una stima al ribasso, secondo il quotidiano britannico che non ha potuto raccogliere dati da diversi altri Paesi che riforniscono di mano d’opera i cantieri del Qatar, come Filippine e Kenya. Le autorità locali smentiscono l’ecatombe: solo 37 sarebbero i decessi legati alla costruzione degli impianti sportivi e di questi solo tre sarebbero dovuti a incidenti sul lavoro. La Fifa difende il Qatar che avrebbe preso “misure sanitarie e di sicurezza molto rigorose”. A due mesi dalla cerimonia di apertura, mentre si moltiplicano gli appelli al boicottaggio, Muhammad alza gli occhi al cielo: “È un’immensa bugia – dice –. Questo Mondiale è il più sporco della storia. Quando uno di noi muore su un cantiere, il Qatar non indaga, non fa fare l’autopsia, non cerca di capire perché un uomo giovane e in buona salute muore all’improvviso. Non vedrete mai scritto “incidente sul lavoro” su un certificato di morte. Si maschera l’accaduto in morte naturale, si parla di salute fragile del defunto, di insufficienza cardiaca o respiratoria”. Nell’agosto 2021, Amnesty International ha esaminato i certificati di morte di sei nepalesi e bengalesi. Manjur Kha Pathan, 40 anni, camionista, lavorava 12-13 ore al giorno a temperature infernali in una cabina con l’aria condizionata difettosa. L’aveva segnalato più volte, invano. È svenuto e poi è morto il 9 febbraio 2021. Sujan Miah, 32 anni, era idraulico su un cantiere nel deserto.
I suoi colleghi lo hanno trovato morto nel suo letto la mattina del 24 settembre 2020. I giorni precedenti le temperature avevano superato i 40 gradi. “Il timore di tutti è di tornare a casa in una bara”, dice Muhammad, che guadagna 340 euro al mese per undici ore di lavoro al giorno, sei giorni a settimana. Il suo è un nome di fantasia, perché teme la repressione del regime del Qatar per sé e per i suoi “fratelli schiavi”. Questi uomini vivono in sovraffollati “labor camp” affittati dai loro datori di lavoro, senza acqua corrente né elettricità, situati in zone industriali inquinate, circondati da recinzioni o muri e tenuti sotto stretta sorveglianza, con guardie, telecamere, microfoni nascosti. Dei minibus li vanno a prendere all’alba per portarli sui cantieri e la sera li riportano al campo. Mediapart è potuto entrare nel campo di Barwa El-Baraha, un mostro di cemento che ospita più di 50 mila lavoratori migranti, soprattutto bengalesi, a sud di Doha. Il sistema, secondo il ricercatore Tristan Bruslé, è stato “ereditato dalle pratiche segregazioniste statunitensi e importato nel Golfo dalla compagnia petrolifera Aramco in Arabia Saudita alla fine degli anni 30”. “Ci trattano come topi”, dice Muhammad, che ha per molto tempo vissuto in uno di questi ghetti. Oggi vive in una quartiere popolare alla periferia di Doha, in un palazzo che condivide con altri lavoratori indiani, filippini, kenioti, ivoriani, ghanesi e maliani. Hari non smette di ringraziarlo per averlo accolto a casa sua. Seduto per terra contro il muro, trattiene le lacrime. Sono cinque mesi che non invia soldi alla sua famiglia, in Nepal. Già il suo stipendio è molto più basso di quello che gli era stato promesso: 1.200 rial al mese (320 euro), che guadagna sudando nel caldo torrido, da 12 a 14 ore a giorno, sei giorni e mezzo a settimana. Più ore di quanto prevedesse in partenza il suo contratto, e molto più del massimo fissato anche dal Codice del Lavoro del Qatar, che supera gli standard dell’Oil, l’Organizzazione internazionale del lavoro (60 ore settimanali). Poi, da cinque mesi il suo datore di lavoro, una società qatariota che lavora in subappalto su diversi siti a Lusail, “la città del futuro”, ha smesso di pagare lui e i suoi colleghi, avanzando dei problemi di tesoreria. Hari non solo non riesce più a mandar soldi alla sua famiglia, ma sta scavando il suo debito: sei anni fa, per sfuggire alla povertà del Nepal e raggiungere il Qatar, aveva contratto un prestito dallo strozzino locale per pagare i 2.000 euro di tasse di iscrizione (illegali) all’agenzia che gli aveva procurato il lavoro. Malgrado le riforme avviate sotto la pressione e l’indignazione del mondo, il Qatar, dove scioperi e sindacalismo sono vietati e ogni ribellione dei lavoratori è repressa, resta per i lavoratori in esilio un viaggio all’inferno tra violazioni dei diritti umani e i peggiori abusi. Negli ultimi anni, per ripulire la propria immagine in vista dei Mondiali, i primi mai giocati in Medio Oriente, per il quale ha investito più di 200 miliardi di dollari, l’emirato del gas ha introdotto un salario minimo di 1.000 rial (circa 260 euro). Ha anche annunciato la creazione di tribunali specializzati nel diritto del lavoro e un Fondo di compensazione in caso di mancato pagamento dei salari che, secondo l’Oil, avrebbe versato dalla sua creazione, nel 2018, più di 160 milioni di dollari a quasi 40 mila lavoratori.
Nel 2020, il Qatar ha inoltre annunciato l’abolizione della kafala (sponsorizzazione), che conferisce al datore di lavoro un potere quasi assoluto sul suo dipendente. Per esempio, il lavoratore non è più obbligato a ottenere dal kafeel un permesso di uscita per lasciare il Paese. In realtà, per mancanza di sanzioni e controlli, la legge viene spesso calpestata e la kafala, profondamente radicata nelle mentalità, esiste ancora, con i datori di lavoro che continuano a confiscare i passaporti. Hari teme che il suo “sponsor”, a cui ha osato chiedere il pagamento dello stipendio, gli annulli il permesso di soggiorno. Muhammad ha registrato decine di casi come questo. Hari non sa cosa farà domani: se nascondersi o tornare suo malgrado nel campo vicino a Asian City, a sud della capitale, dove vivono più di mezzo milione di proletari. Muhammad propone di rivolgersi al Fondo di compensazione, ma prima vuole chiedere consiglio alla sua “rete”. Ha poche speranze, ma non glielo dice. Muhammad teme soprattutto il giorno dopo i Mondiali, quando la “grande messa” del calcio sarà finita. A quel punto, si chiede, chi continuerà a indignarsi per i lavoratori-schiavi del Qatar? Lavoratori senza i quali il Paese non sarebbe il paradiso fiscale che è oggi, corteggiato da tutto il mondo e che può permettersi tutto, anche di pagarsi isole e montagne artificiali, nella corsa al gigantismo con la rivale Dubai.