Corriere della Sera, 24 settembre 2022
Su "Avere tutto" di Marco Missiroli (Einaudi)
Bastano poche pagine per rendersi conto che Avere tutto, il nuovo libro di Marco Missiroli, per struttura, per tono, per una sua intima tensione, non viene immediatamente da dentro Atti osceni in luogo privato e Fedeltà, ma è davvero nuovo. Certo, chi in seguito studierà per bene l’opera di questo autore, troverà tutti i nessi necessari a partire dalle prime prove (Senza coda, Il buio addosso, Bianco, Il senso dell’elefante). Basta applicarsi e i nessi si trovano sempre, niente nasce da niente, anche in letteratura. Ma il lettore affezionato di adesso legge e pensa subito: in questo racconto che combina in modo molto emozionante il piacere del ballo, il gioco seducente delle carte e lo strazio della malattia e della morte, c’è qualcosa che mi spiazza.
Non è un caso raro. Può accadere che uno scrittore con una fisionomia in via di definizione grazie a libri di crescente successo, si imbatta a un certo punto in materia grezza che, anche se non è — o non pare essere — coerente col suo profilo di autore, gli chiede di essere lavorata con urgenza. La materia può avere la provenienza più varia. È, che so, una vicenda che abbiamo orecchiato in metro. È un piacere privato, o una ferita che non guarisce. È un’immagine che si è imposta leggendo libri di altri. È roba nuova, mai raccontata. Ma comunque stiano le cose, quella matassa arruffata è insistente, sosta in un angolo della testa — una ressa di immagini, suoni, frasi mezzo articolate che pretendono tempo per diventare ben scritte — e non se ne va, ci importuna, ci tenta. Che faccio — pensiamo — ci lavoro o non ci lavoro? E se ci lavoro, sarò io a ridurla a me — a questo me-autore sviluppo — o sarà lei a ridurmi a sé, scombinandomi con chissà quali conseguenze?
A Missiroli dev’essere andata così. Che fare, provare a scrivere? I materiali di Avere tutto (Einaudi) non contemplano gli sfondi degli ultimi libri. C’è molta Rimini, invece. E la bava di mare, il garbino, l’orto, il podere, il dopolavoro ferroviario, il piccolo commercio del bar America, la balera, passi e salti del ballo, i tavoli da gioco, le carte. Ma soprattutto: un figlio io narrante, una madre morta da poco, un padre che resiste appassendo, l’effetto delle loro ombre. Se si scrive da parecchio e ci si è conquistati un po’ di abilità, si può tentare di pescare il filo giusto e, male che vada, dare forma a una buona piccola storia. Qui però succede altro. Si avverte la spinta ad andare oltre. Ed è un momento magico anche per chi legge sentire a ogni pagina che l’autore c’è riuscito. Ha colto l’occasione per un salto da ballerino audace, ha fatto di più e meglio.
Fare di più e meglio. È l’assillo di ogni vero scrittore, lo metteva bene a fuoco il Kafka ventenne di una famosissima lettera (1903) al suo amico Oscar Pollack. Di quel testo è stranota la definizione che Kafka dà della funzione delle grandi opere: «Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi». Minore attenzione si presta, in genere, alle frasi che precedono quella definizione. «Buon Dio — scrive Kafka — saremmo felici anche se non avessimo dei libri, e quei libri che ci rendono felici potremmo, a rigore, scriverli da noi. Ma ciò di cui abbiamo bisogno sono quei libri che ci piombano addosso come la sfortuna, che ci perturbano profondamente come la morte di qualcuno che amiamo più di noi stessi, come un suicidio». La nostra letteratura pare oggi nello stadio in cui, a rigore, ogni mese è possibile pubblicare, mandare in libreria, un bel po’ di libri che ci rendono felici. Può sembrare arrogante — anche in Kafka suona un po’ arrogante, non è mica facile scrivere libri che fanno felici — ma è così: il mercato funziona, l’editoria vivacchia malgrado l’aumento della carta, gli autori conquistano un piccolo o persino vasto pubblico e fondano un loro personale modello di libro felice che spacciano, spesso in conflitto con altri modelli rivali, per universale. Eppure anche il più soddisfatto degli scrittori non può non sognare di imbattersi un giorno nel suo libro-ascia. Sognare, appunto, perché quel salto è arduo. E serve a poco la buona qualità dei materiali grezzi che ci toccano in sorte, serve a poco persino l’abilità con cui li raffiniamo. Dobbiamo fare i conti, piuttosto, con la nostra prudenza che ci spinge a fare e rifare le cose che abbiamo imparato a fare e che il pubblico e/o la critica hanno premiato. Sicché ci spaventano altre possibilità, e ciò che forse è decisivo è proprio un po’ di imprudenza.
Missiroli a me è sembrato sempre uno scrittore imprudente, vale a dire uno che guarda oltre sporgendosi il più possibile da un qualche se stesso. Con questo Avere tutto lascia Parigi, frequenta poco Milano, torna nella sua Rimini. Qui riesuma il dialetto locale e ne fa — trascrivendone segmenti ma soprattutto iniettandone la tonalità nell’italiano — la voce cadenzata, cantilenante di Sandro, l’io che racconta. L’italoriminese del narratore è importante. Senza quella voce sua madre Caterina, suo padre Nando, le sue donne — Giulia e Bibi —, gli amici di lunga data, il belzebù Bruni, il bel mucchio di figurine schizzate velocemente, non gli sarebbero venuti così coinvolgenti.
Ma la ricchezza verbale del libro non si esaurisce qui. Il mondo del padre e in parte della madre — generazione ancora in bilico tra città e contado, tra posto impiegatizio e fatica contadina — è costruito con il lessico della cura dell’orto e del podere, con quello delle balere e del ballo, la passione assoluta di Nando e di Caterina. Le vicende della loro esistenza — quelle dove persino il godimento del ballo è disciplina, un addestramento duro, umiliazione e riscatto — sono ben piantate dentro quelle parole. Che però per Sandro sono reperto, vocabolario dell’infanzia e dell’adolescenza, verbo del tempo passato che ha bisogno di essere recuperato nel contatto-contrasto con i genitori o i loro fantasmi. La lingua del suo presente è segnata invece dal lessico dell’azzardo. Per lui conta l’irruzione dell’idea vincente nel suo aleatorio lavoro di pubblicitario, il sogno insistente di un milione d’euro piovuto dal cielo e chissà che te ne fai, il gergo competente dei tavoli da gioco, l’accidentalità del «dono», vale a dire una sensibilità per la puntata giusta, per le carte buone. Tra le generazioni c’è sempre uno strappo, che prima pare una liberazione e poi diventa una malinconia, un dolore, una colpa, una lingua diversa.
Questo doppio italiano è la veste di Avere tutto, costituisce l’invenzione che lo forma e lo fa avanzare. I due livelli si accostano, si urtano, ma restano soffertamente divergenti. Ce ne accorgiamo nelle parti narrate, fatte di frammenti montati non cronologicamente, mimando l’occasionalità dei ricordi. Sono segmenti della vita di Nando che non resiste alle balere anche dopo la morte di Caterina. Sono scene-lampo delle sconfitte e vittorie dei due coniugi, ballerini dilettanti, genitori in ansia. Ma sono anche, a montaggio alternato, il racconto di come è nato, in Sandro, il vizio del gioco e come si è irrobustito attingendo ai risparmi di famiglia, e come lui si sciupa in rabbie compresse, pulsioni sadiche anche nelle metafore con cui registra il contatto con le carte e altro.
Ma il meglio di questo incontrarsi, spintonarsi, aprirsi e chiudersi, è nei dialoghi. Sono battute spezzate e sprezzate, al limite della comunicazione, che si servono spesso dell’ironia per evitare il confronto senza peli sulla lingua. Lì il lettore avverte con forza l’affetto tra padre e figlio, il legame intenso con la madre, l’urto con la morte che s’è portata via la seconda e presto si porterà via il primo. Ma contemporaneamente, nello stesso scambio di battute, sente i cattivi sentimenti, l’apprensione, il dolore, la ribellione, il non detto per evitare il conflitto. Davvero ben fatto. I dialoghi esplodono in schegge di lingua stilizzata e tuttavia sorprendentemente vera. A ogni battuta, la vita è ambigua, sbanda, spesso mozzando il fiato. Persino quando si tratta di genitori e figli e l’amore è grande, accostarsi davvero l’uno all’altro, provare a uscire dalla nostra solitudine strutturale, organica, pare quasi impossibile. Un mazzo di carte può essere uno svago in famiglia e un vizio autodistruttivo; un passo di danza può essere un piccolo piacere di coppia e la forma perfetta dell’esistenza. Alla fine è solo l’insopportabile — assistere alla sofferenza di chi amiamo mentre la vita li abbandona — che ci permette lo sforzo di portare la nostra vita fuori dallo sciupio.
Missiroli fa potente uso della sua esperienza, della sua immaginazione, dei romanzi che ha amato, e ci mette sotto gli occhi un libro concentratissimo, commosso e commovente, dove la vita — anche nelle sue più comuni incarnazioni — deborda, non si blocca nella figurazione ben riuscita né si lascia umiliare dalla figura del fallimento, ma oscilla inarrestabile tra gioia pura e dolore, tra errore e ravvedimento. Leggiamolo e sperimentiamone l’effetto sul lago di ghiaccio che ci portiamo dentro.