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 2022  settembre 25 Domenica calendario

Biografia di Jocelyn Hattab raccontata da lui stesso

Alla fine Jocelyn ha portato la sua vita in televisione. Una sorta di reality privo dell’etichetta del reality. I quiz, le sfide in stile Giochi senza frontiere, l’adrenalina controllata, le montagne mai troppo alte da scalare, la musica come presenza perenne, non sono solo la sua espressione artistica, ma la sostanza di un approccio all’esistenza.
Non si scompone mai.
Neanche quando parla del suo addio alla Tunisia ad appena 11 anni, o delle difficoltà a integrasi in Francia (“Ne porto i segni sul volto”); non si esalta per i successi (“A 28 anni ero già nella televisione monegasca”); mantiene perennemente un tono levigato, di chi ama stupirsi e non intende perdere tempo sulle piccolezze; di chi crede che il mare d’inverno non è necessariamente un film in bianco e nero visto alla tv. Lui teme giusto di non avere tutto il tempo necessario per realizzare le sue idee.
Nel frattempo, insieme a sua moglie, la giornalista Alessandra Chianese Hattab, conosciuta già ai tempi di Discoring, ha una trasmissione il sabato e la domenica dalle 11 alle 13 su Rtl 102.5 Best.
Lei è il gioco e l’allegria.
È da sempre quello che ho cercato di trasmettere; da sempre mi ritengo fortunato perché vivo di questo mestiere, quindi è giusto e fondamentale restituire del buonumore, senza far vincere l’egocentrismo.
È considerato il primo disk jockey televisivo della storia…
In qualche modo sì, ma è stato tutto casuale.
Cioè?
A Telemontecarlo negli anni Settanta avevo iniziato a mandare in onda dei video: piano piano lo spettacolo ha coinvolto anche noi tenici, perché discutevamo dei vari contributi musicali e da lì ci siamo resi conto che funzionava.
Come si è scoperto regista?
Ho iniziato a 16 anni; (sorride) ero piccolissimo e già andavo in onda sulla radio nazionale francese quando in redazione è giunta la notizia dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy: non sapevo come gestire la situazione, cosa dire, come intrattenere. Sono stati i 25 minuti più complicati della mia vita.
Così giovane già alla radio nazionale?
Perché ero stato iscritto all’Accademia e gli studenti a turno avevano la chance di testarsi sulle emittenti; (con tono pacato) il resto della mia vita è stato più complicato.
Sotto quale punto di vista?
Rispetto alla professione? Resistere alle pressioni dei miei genitori: secondo loro dovevo trovarmi un mestiere vero e serio, per questo all’inizio ho tentato di accontentarli con un impiego in banca, poi da aiuto ragioniere e infine come venditore. Ho venduto di tutto.
Di tutto, cosa?
Enciclopedie, televisori e soprattutto automobili.
Insomma, un bravo venditore.
Pure pilota; per piazzare bene le auto dovevo conoscerne i segreti.
Quando ha scoperto il potere del sorriso?
I miei genitori sono sempre stati gioiosi, anche quando hanno deciso di lasciare la Tunisia per la Francia. Io avevo solo undici anni.
E in Francia hanno provato a intaccarle il sorriso?
Sempre, un continuo.
Razzismo?
(Sbuffa alla “francese”) Il razzismo è inciso sul mio volto sotto forma di cicatrici, ma non solo perché tunisino, pure per le mie origini ebraiche.
Si difendeva?
Cercavo in tutti i modi di evitare i guai, ma se attaccato ero diventato bravo a parare i colpi.
Quando la svolta?
Ero sposato, era nato mio figlio Franck (interviene la terza moglie Alessandra: “Franck realizza della musica elettronica meravigliosa”); insomma, allora vendevo auto di lusso usate, ma garantite da me.
Il certificato “Jocelyn”.
Curavo i miei clienti, avevano il numero di casa: se accadeva qualcosa alla macchina, potevano chiamarmi a qualunque ora, mi vestivo, se era di notte svegliavo il meccanico e andavo a salvarli.
Insomma…
Vendo una Porsche a Michel Fugain (celebre cantante francese), stringiamo un bel rapporto, scopre che in passato ero stato un direttore di scena e mi offre di seguirlo in tournée. Accetto. E poco dopo esce un suo grande successo Une belle histoire (cantata in Italia da Franco Califano con il titolo “Un’estate fa”)(sorride) a 27 anni dovevo gestire 33 persone, organizzare i viaggi, farli dormire, mangiare e governare un budget ristretto. Un bordello.
Spiazzato?
Per fortuna no, all’Accademia di Arte Drammatica c’era un esame proprio dedicato all’organizzazione: sapevo alla perfezione gli orari dei treni e come muovermi; comunque, tempo dopo conosco Jacques Antoine (creatore di game show televisivi) e mi propone di entrare nel team di una tv monegasca che trasmetteva in italiano (la moglie lo prende in giro: “Caspita, stai beccando tutte le coniugazioni verbali”).
Già conosceva la lingua italiana?
Zero. Solo qualche termine in siciliano grazie ai miei vicini di casa in Tunisia.
Quindi?
Ho imparato con i film; (sorride) nella tv monegasca a un certo punto ho tolto il monoscopio, ho piazzato della musica e parlato sopra: sono diventato un personaggio misterioso del piccolo schermo.
Da undicenne emigrante in Francia a ventottenne nel regno della ricchezza…
A Montercarlo non vivevo nel lusso, stavo con gli altri della rete; (cambia tono) in quel periodo ho fatto una grossa cavolata.
Quale?
Prendevo in giro una collega perché risparmiava tutto quello che poteva per poi acquistare dei piccoli appartamenti del Principato, quasi tutte mansarde, mentre io la spronavo a divertirsi. Aveva ragione lei. Oggi valgono milioni di euro.
Come spendeva i suoi soldi?
Magari andavo a mangiare a Genova in uno dei migliori ristoranti della città, o altre cavolate; per me il lusso equivaleva al comfort.
Non in automobili?
Ne possedevo una scassata e improbabile.
Appassionato di cibo…
No, di rapporti umani: a Genova trovavo i New Trolls, Ivano Fossati, Oscar Prudente, insomma persone piacevoli in grado di arricchirti lo spirito e il cuore; (abbassa il tono) ci divertivamo.
I Reali monegaschi li ha conosciuti?
(Sorride) No, solo una volta è arrivato un loro collaboratore per chiedermi se gli davo uno dei miei dischi, avevo appena pubblicato un brano che era diventato un successo.
E lei?
Sono andato a compralo, non ne avevo neanche una copia.
Dagli anni Settanta in poi ha incrociato tutti i protagonisti della musica.
A Montecarlo ricordo Indro Montanelli in studio, era il protagonista del commento del giorno; appena finito entra in regia e si piazza in un angolo, su una sedia, per scrivere un articolo. Nel frattempo arriva Renato Zero e per la trasmissione si prepara alla Renato Zero; poi decide di truccare anche me. Montanelli impassibile. Continuava a scrivere senza perdere la concentrazione. Noi ridevamo. Eppure, alla fine, proprio Indro mi ferma: “Chi è questo ragazzo? Sembra interessante”. “Direttore se vuole ci andiamo a cena, così lo conosce”.
Risultato?
Ascoltare Indro e Renato confrontarsi fece sì che quella si tramutasse in una delle più belle serate della mia vita.
Qual è il minimo comun denominatore degli artisti?
La fragilità: basta una parola per distruggerli.
E lei in cosa è fragile?
(Risponde la moglie: “La delusione legata alla persone: ci sta male fisicamente; per questo una volta è finito al Pronto soccorso”. E qui Jocelyn decide di cambiare discorso). Tanti anni fa ho incontrato Franco e Ciccio fuori dalla Rai. Li fermo e rivelo loro: “Ho imparato l’italiano grazie ai vostri film”. E Franco: “Ecco perché lo parli così male”.
L’artista più fragile.
Mia Martini, e a causa delle dicerie; in trasmissione arrivavano altri artisti e su di lei mi raccontavano delle storie assurde; ogni volta mi incazzavo e rispondevo: “Non sono superstizioso perché porta male”.
Differenza tra tv italiana e francese…
In Italia c’è molta più improvvisazione, esiste l’arte di arrangiarsi. E non è un male.
Nel 1992 arrivato a Domenica In.
L’aspetto più importante è che l’ultima puntata è andata in onda il 25 aprile.
Una “liberazione”.
Una vera liberazione, però in quella stagione ho mantenuto la libertà di mettere in pratica alcune delle mie follie, come organizzare una battaglia navale tra traghetti.
Era così complicata Domenica In?
Da Toto Cutugno ad Alba Parietti erano tutti sempre in lite, si lavorava in un’atmosfera complicata, mi trovavo bene solo con Ugo Gregoretti, anche lui spaesato rispetto a quel contesto; (pausa) però ho conosciuto Brian May.
Chitarrista dei Queen.
È stato un momento magico; venne da noi subito dopo la morte di Freddie Mercury e dietro le quinte mi spiegò che per ottenere il suo timbro, così particolare, suonava la chitarra con un penny invece del classico plettro.
Gli altri incontri del suo cuore.
La “sora” Lella. Donna divertentissima; (abbassa la voce) in realtà quando fai questo mestiere non puoi mantenere le vesti del fan, sei obbligato a cambiare la prospettiva del tuo sguardo.
Allora chi l’ha colpita.
Ray Charles, Stevie Wonder o quando ho curato le luci per Édith Piaf; la Piaf era incredibile, così fragile e piccola, era giovane ma dimostrava il doppio dei suoi anni, poi saliva sul palco e scoccava la magia. Io commosso. Era la preferita di mio padre.
E poi?
Domenico Modugno: mi dava degli schiaffetti ed era un suo modo per dimostrami amicizia, riuscivo a farlo ridere; poi la mia fascinazione era per Gino Paoli, la storia della pallottola in corpo mi lasciava sbalordito.
Piace molto alle donne.
Io? A quanto pare pure agli uomini. Almeno così mi dicono.
Lo ha riscontrato?
Io no (la moglie sorride: “Girano voci”. Che voci? “In realtà gli arrivano molti messaggi dalle donne che non sanno del nostro matrimonio, magari si sbagliano e li mandano a me”. Dolore. “Pure sui social ho letto cose imbarazzanti, lui nega”. Mentre sugli uomini? “Una nostra amica mi ha raccontato che nell’ambiente televisivo si diceva fosse omosessuale, e non c’è niente di male, ma credo sia solo a causa della sua gentilezza”).
Da quanto vi conoscete?
(Sorride) In teoria da molti anni: Alessandra era nel pubblico di Discoring (“Allora ero piccola, minorenne, e nel gruppo c’era pure Tiberio Timperi). Oggi è bello condividere con lei una trasmissione radio.
Di cosa ha paura?
Di non avere il tempo per portare a compimento tutto quello che ho in testa.
Voi chi siete?
Due che si amano, e per favore, mentalmente aggiunga l’immagine di tanti fiorellini intorno. (E la moglie: “Non saremo troppo smielati?”)