La Stampa, 25 settembre 2022
Intervista allo scrittore Nathan Englander
All’Old Globe Theatre di San Diego, in California, ha appena debuttato lo spettacolo Di che cosa parliamo quando parliamo di Anna Frank, tratto dall’omonimo racconto che Nathan Englander pubblicò dieci anni fa. È la storia di una cena in cui due amiche ebree si ritrovano dopo vent’anni, con i rispettivi mariti: una si è allontanata dalla religione, l’altra è diventata iper ortodossa. Debbie e Lauren sono cresciute insieme e continuano a volersi bene, ma le loro vite possono ancora essere conciliabili, anche solo per il tempo di una cena? Sembra la ricetta per una serata all’insegna della tensione, e in effetti va proprio così.
Englander ha passato questi mesi viaggiando tra Toronto, dove si è trasferito per seguire la moglie che insegna all’università, e San Diego, dove ha lavorato allo spettacolo insieme al regista Barry Edelstein. Nato a Long Island, vicino New York, è cresciuto in una famiglia ortodossa, per poi decidere di vivere da non praticante dopo alcuni anni trascorsi in Israele, durante i quali si è — racconta — «emancipato». Ha studiato scrittura creativa al famosissimo Iowa Writers’ Workshop (dove hanno insegnato scrittori come John Cheever e Philip Roth), e ha esordito nel 1999 con Per alleviare insopportabili impulsi (Einaudi).
Che effetto fa lavorare a uno spettacolo basato su un racconto di molti anni fa?
«Si scrive sempre da un punto nel tempo e nello spazio. Lì dentro c’è una battuta sull’aborto che oggi, con quello che è successo negli Stati Uniti, suona molto diversa. Invecchiando, mi interessa sempre di più la nostra percezione dell’amicizia, e come cambia con l’età».
Per esempio?
«Poniamo che un nostro amico sposi una persona che ci sta antipatica. Be’, forse è un discorso che vale in America, dove ci si sposa molto. In Europa la gente si sposa meno: a Berlino credo non si sposi nessuno da trent’anni. Ma comunque: un nostro amico si mette con una persona stronza. Oppure è un cattivo genitore. E questo fa cambiare anche i nostri rapporti».
C’entra solo l’età?
«No, c’entra anche la società. Una volta si potevano avere amici con idee politiche molto lontane dalle nostre. Ora non più, due persone che la pensano diversamente vivono in realtà parallele.
Si è mai posto la domanda che c’è nello spettacolo, ovvero: questo amico mi nasconderebbe dai nazisti?
«Io e mia sorella abbiamo sempre fatto questo gioco. Quando conosciamo una persona nuova, se ci sta simpatica e la troviamo gentile, andando via commentiamo: "Sì, ci nasconderebbe". È il nostro metro di giudizio verso il mondo, anche se non siamo figli o nipoti di sopravvissuti, visto che la nostra famiglia è americana da parecchie generazioni. Quello però è il trauma collettivo del nostro popolo, ce l’abbiamo inscritto nel Dna. Ho scoperto che in altre culture si fanno giochi simili. L’aiuto regista dello spettacolo è afroamericana, e mi ha raccontato di aver sempre giocato "alla ferrovia sotterranea". Vale a dire a chiedersi se una certa persona avrebbe sostenuto la sua fuga, oppure no. ("Ferrovia sotterranea" è il nome dato alla rete d’aiuto segreta che permetteva agli schiavi di fuggire, ndr)».
Una cosa forte.
«Questo spettacolo ha battute molto forti, che poi è il modo in cui molti ebrei, io per primo, parlano quando sono tra loro. Il mio mestiere è raccontare, e un libro, una storia, possono essere materiale sovversivo. Pericoloso è chi non legge, come Trump».
Che ruolo ha uno scrittore oggi?
«A cambiare il mondo non possiamo essere noi: devono pensarci le aziende, i miliardari come Elon Musk. Noi scrittori siamo l’ultima linea di difesa. I giornalisti hanno un potere molto più grande. Prendiamo la CNN: è morta la regina Elisabetta e per dieci giorni non hanno parlato d’altro. Nel 2022 non è normale».
Qual è una cosa che le fa paura?
«Che ciascuno di noi potrebbe morire domani».
È quello che ha pensato quando è stato attaccato il suo amico Salman Rushdie?
«No, in quel caso ho pensato che Salman è la persona più coraggiosa che conosco. Ha vissuto per anni sapendo che una cosa del genere era possibile. E che visto che siamo in America, se quel ragazzo avesse avuto una pistola, a quest’ora Salman sarebbe morto. Abbiamo fatto tante cose insieme. Anni fa eravamo a Capri, al festival organizzato da Antonio Monda (Le Conversazioni, ndr), e con noi c’era Roberto Saviano. Ricordo mia moglie che a cena si guardava intorno pensando che nascosto nel buio poteva esserci chiunque. Io non so se avrei avuto il coraggio che hanno avuto loro. Non vedo l’ora di rivederlo, appena si potrà».
Che cosa gli dirà?
«Salman, andiamo a cena. Il conto stavolta lo pago io».
L’Italia le manca?
«Molto. Giusto l’altro giorno mia moglie mi diceva che è da un po’ che non vado al Festivaletteratura di Mantova, il mio preferito. E io le ho spiegato che per quello devo scrivere un libro nuovo: non è che ti mandano in tour così».
Ha un ricordo buffo legato al nostro Paese?
«Una volta ero a Roma e mi hanno portato a conoscere il sindaco Alemanno. Poi qualcuno mi ha detto che era un sindaco fascista. Ma proprio a me che sono ebreo dovevano presentarlo?».
Ebreo e per di più cresciuto in una famiglia ortodossa.
«Esatto. Non hassidica, però ortodossa. Non uscivo di casa senza kippah in testa, non mangiavo nulla che non fosse kosher. Andavo in sinagoga e alla yeshivah (la scuola ebraica, ndr)».
Poi qualcosa è cambiato: adesso non è più praticante.
«Dentro di me ho sempre saputo che non era la vita per me. Sentivo che la mia vocazione aveva a che fare con il diventare diverso rispetto alla comunità in cui ero cresciuto. Sono sempre stato un outsider, nella comunità ortodossa e nel mondo della scrittura, almeno all’inizio».
C’è un libro che le ha cambiato la vita?
«Ricordo ancora il momento in cui trovai una copia di Lamento di Portnoy di Philip Roth: era di mia madre, ma la teneva ben nascosta. E io, che ero un ragazzino religioso, lo lessi come avrebbe potuto leggerlo una casalinga degli anni Cinquanta: scandalizzandomi. Lì capii che esisteva anche un altro modo di essere ebrei: che lo si poteva essere da intellettuali».
Cosa pensa di quello che sta succedendo in Iran?
«Non vale solo per l’Iran ma per tanti altri posti, anche Israele, anche la Palestina: spesso al potere ci sono individui e partiti che si schierano "contro" cose e persone a cui la gente comune ha smesso di essere "contro" da molto tempo. Mi commuove vedere le donne iraniane in piazza a manifestare. Società non significa controllo, ma prendersi cura gli uni degli altri. Essendo cresciuto in un contesto religioso, sono molto sensibile su questo punto: bisogna proteggere il diritto di ciascuno a essere religioso, fintanto che questo non intacca la libertà di qualcun altro».
Come vi siete conosciuti e innamorati lei e sua moglie?
«È una bella storia. Inizia con me che vado in Brasile a un festival letterario, e a questo festival conosco Chimamanda Ngozi Adichie. Quando torno mi arriva una sua email molto buffa, in cui dice: "So che non si fa, è un po’ come quando a una donna nera, tipo me, dicono: ah guarda, vorrei presentarti quest’altro mio amico nero. Magari perché è l’unico amico nero che hanno". Il punto era che sia io, sia Rachel, siamo ebrei. Lei e Rachel avevano fatto un master insieme a Yale, e sono molto amiche. E insomma lei pensava fossimo fatti l’uno per l’altra e ci ha messi in contatto».
E voi?
«Per un po’ ci siamo scritti, poi siamo passati al telefono, e alla fine ci siamo incontrati: io sono partito da New York, lei è scesa dal Maine, e ci siamo visti a Boston. Ora siamo sposati con due figli».
Chimamanda è contenta?
«L’unica cosa di cui non è tanto contenta è che non abbiamo chiamato la nostra primogenita Chimamanda Junior, come avrebbe voluto lei».