La Stampa, 25 settembre 2022
Emanuele Trevi contro Giorgia Meloni
Se esistessero davvero «i soliti intellettuali della sinistra di Capalbio e dei salotti», quelli che Giorgia Meloni non manca di irridere, additare, assommare in un cliché vintage e chiamare in causa accusandoli di essere ipocriti parvenu privilegiati, Emanuele Trevi sarebbe uno di loro. Romano, scrittore, critico letterario, figlio di uno psicanalista e una neurologa, vincitore del Premio Strega (l’anno scorso, con Due Vite), quasi mai in camicia, quasi sempre in t-shirt, di sinistra. Ce le ha tutte.
Trevi, destra e sinistra non erano finite?
«Non ci ho mai creduto».
Ma che cos’è la sinistra?
«Non puoi definire la sinistra come definiresti l’Illuminismo: esiste nel conflitto con la destra».
Mi dica una cosa di sinistra.
«Il reddito di cittadinanza. Anche se l’ha fatto Grillo e l’ha fatto male. Credo sia sconsiderato, e anche moralmente riprovevole, toglierlo o sostituirlo con qualcosa di impersonale: non si possono togliere i soldi del reddito e metterli sul cuneo fiscale. Ecco una cosa di sinistra: strumenti che consentano di adottare misure pensate per le singolarità».
Il centrosinistra avrebbe dovuto allearsi con Conte?
«Il centrosinistra avrebbe dovuto cambiare la legge elettorale. Oggi andiamo a votare con un sistema che non rappresenta davvero la volontà popolare, è grave abbastanza da giustificare l’astensionismo. Io sono un deciso sostenitore del proporzionale, e taccio di stupidità politica quelli che per fare un po’ i moderni dopo Tangentopoli giustificano il principio maggioritario con una maggiore governabilità. La governabilità esiste solamente nelle storie civili dove c’è stato un bipolarismo. I sistemi elettorali sono la sostanza stessa della democrazia, non un contorno. Se fossi stato il leader del Pd, avrei messo come condizione dirimente quella riforma: era così urgente che si doveva combattere fino al punto di far cadere il governo».
Oppure, un passo prima?
«Fare come si faceva nella Prima Repubblica».
No, la prego, anche lei con la mitizzazione della Prima Repubblica?
«No, ma quei politici prima di fare una legge o di riformarla, chiamavano qualcuno che ne capiva, chiamavano Norberto Bobbio e gli chiedevano un parere, a volte pure proprio cosa fare, e Bobbio, con pazienza, spiegava. Invece no, qui siamo in piena anarchia, ed è un’anarchia che per quanto mi riguarda produce qualcosa di paragonabile a un attentato terroristico alla democrazia».
Il taglio dei parlamentari è uno di quegli attentati?
«Direi di sì. Avevano un costo poco rilevante per la politica e soprattutto riflettevano la complessità di un Paese variegato e diviso come il nostro, che va da Cogne a Lamezia Terme, e che quindi necessita di un nutrito apparato di collegi per poter essere rappresentato. Ma le riforme vengono fatte come fossero questioni di principio, senza senso della realtà e della logica».
Cosa pensa di Meloni?
«Che, in grande, potrebbe ripercorrere la parabola di Gianni Alemanno. Il problema di entrambi sono i vecchi amici: per quanto ti redimi, verranno sempre a batterti una mano sulla spalla. E lei avrà sempre qualche fascista da accontentare, ma siccome sarà vincolata al Pnrr, le uniche cose che potrà fare per tenerli contenti, saranno di tipo simbolico: dalla censura di Peppa Pig al blocco navale. In questo modo, terrà compatta la destra intorno al puerile entusiasmo della vittoria. Poiché le cose serie le fa Bruxelles, a loro non resta che l’azione da Armata Brancaleone».
Consigli un libro a Giorgia Meloni.
«Un cretino direbbe: Primo Levi. E giuro che mi è pure capitato di sentirlo. Io direi Cristina Campo. Julius Evola. I simboli della scienza sacra di Guénon, così magari dà sostanza a tutto quello di cui parla per sentito dire - e in cui si ritrova parte del suo elettorato - sul conservatorismo, gli hobbit, le rune».
Ne consigli uno a Letta.
«La macchia umana di Philip Roth, perché la sinistra si pensa ancora moralmente superiorità, ma la superiorità morale non esiste».
Gli intellettuali hanno perso il contatto con la realtà?
«Non lo abbiamo mai avuto. Ci siamo sempre rivolti a una minoranza colta. Il problema è che abbiamo perso il contatto con la classe dirigente: era con quella che dovevamo parlare, era quella che doveva venirci a cercare».